Battaglia nel cielo

Vi sono film che richiedono allo spettatore non semplicemente di assistere alla proiezione e goderne, ma di concorrere alla costruzione di senso del film stesso. Film che difficilmente potranno mai sbancare il botteghino, né fare la felicità del pubblico che vuole “tutto e subito” (le risate, l’eccitazione, la paura, l’emozione diretta), ma che in compenso possono addolcire la serata di un cinefilo, di un amante della sperimentazione e di un semiologo.

“Battaglia nel cielo” è uno di quei film. E ne ha assolutamente tutte le caratteristiche. Immaginiamo Gianfranco Bettetini, che negli anni ’70 propose senza troppo successo una semiologia del cinema, che uscirebbe estasiato dalla sala. Immaginiamo il folto pubblico che dichiara campione d’incassi “Notte prima degli esami” che non arriverebbe fino in fondo.  In fondo al primo tempo, s’intende.

La storia del film (proprio come accadeva ai film che Bettetini fece da regista pur di esplicare le proprie teorie) è solo un pretesto, un canovaccio che serve a mettere in scena immagini.
Immagini forti: corpi, sessualità, sudore, grasso superfluo, automobili tristi, sguardi spenti, paesaggi urbani di un Messico sovraffollato, alzabandiera soldateschi, campi che combattono l’aridità, pellegrinaggi alla Madonna (già epici con Fellini e col capolavoro trash “Trastevere” di Fausto Tozzi), sangue, ricchi annoiati, amplessi meccanici, pisciate nel bagagliaio di una limousine, disperazione. La disperazione non è un’immagine, si potrebbe obiettare, ma la bravura di Reygadas è proprio quella di farla diventare tale.

Proiettata a Cannes (dove il suo primo film “Japon” aveva vinto la camera d’or), l’opera seconda di Carlos Reygadas ha fatto subito scalpore (tanto da oscurare, quel giorno, la contemporanea presenza di “Guerre stellari”), ed ha diviso la platea, consumatasi in applausi e fischi congiunti, cosa che di rado accade in un festival.

Era accaduto alcuni anni fa a Venezia per “O fantasma”, film che condivide con “Battaglia nel cielo” l’impostazione di fondo. Lo scandalo, a Cannes, bissa quello di “Brown bunny” di Vincent Gallo (2003), dove una fellatio ripresa con dovizia di particolari indignò il pubblico british del Festival french. Qui addirittura la fellatio apre il film e lo chiude, come un cerchio onirico che diventa fumetto e dentro il quale l’autore scrive la sua battuta “cosa avete visto?”.

Noi abbiamo visto la storia di Marcos, autista povero e grasso, che ad inizio film viene a sapere dalla propria moglie (india, obesa, indifesa) che il bambino che i due hanno rapito è morto.
Dunque la richiesta di riscatto va a farsi benedire, ed è questo che sembra preoccupare la coppia. Eppure i due non sono cattivi, crudeli, cinici. Anzi, coi loro corpi border line trasmettono una fragilità non comune. Sono canne in preda al vento, e il loro debordante antipodismo dai canoni estetici contemporanei li fa canne sottilissime, cannizzo, fogliame.

Quando Marcos fa l’amore con la moglie, Reygadas ci pone davanti ad una scena che difficilmente vedremo altrove: due corpi orrendi (specie quello di lei) che godono della propria carnalità. Anche qui è fortissima l’inferenza chiesta allo spettatore, cui arriva solo un’iniezione di messaggio, che non può che essere completata (subita, rifiutata, rivalutata) con l’emozione o la riflessione. Poi Marcos va a prendere la figlia del capo, la meravigliosa, sensuale ventenne Anapola Mushkadiz,
coi suoi dreadlock e un doppiaggio roco che la fa ancora più intensa. E’ la stessa che Marcos sognava (ma era un sogno?) nella fellatio d’apertura. Lei, bella ricca, fidanzata e annoiata, non trova di meglio da fare che prostituirsi con delle amiche. Porta Marcos con sé al bordello, ma lui non vuole altra che lei. La quale lo rimprovera per questo, ma di lì a poco lo soddisfa, con un rapporto sessuale filmato ai limiti dell’hard e nuovamente prodigo di possibili interpretazioni. Poi, fra lunghe carrellate, tratti in auto e la comparsa del fidanzato bello e atletico di lei, si arriva al finale che non vi riveliamo.

E’ un film che in Italia non si potrebbe mai fare, a meno che il regista non si finanzi da solo. E’ un film che piacerebbe a chi è d’accordo col gruppo di critici che fa capo al guru del Manifesto Roberto Silvestri, a chi ha amato i più lunghi e taciturni film di Antonioni, a chi -a rischio di diventare strabico- guarda con un occhio a Rohmer e con l’altro a Straub. E’ un film da sconsigliare a chi deve sentire dialoghi ben scritti per godersi lo spettacolo, a chi ama la velocità, l’azione, i messaggi univoci.

Se lo guardate, andatevi poi a rileggere Jakobson, Bühler, il Trattato di Umberto Eco, o Greimas & Courtes: capirete che studiare comunicazione non è poi quella cazzata che molti dicono sia.

CREDITS: Batalla en el cielo (MESSICO’ 05). Regia di Carlos Reygadas. Con Marcos Hernández, Anapola Mushkadiz, Berta Ruiz, David Bornstien, Brenda Angulo, El Abuelo, El Mago.
Drammatico, colore, ’98 min.

SUGGERIMENTI: Confontalo con: “O fantasma” di Joao Pedro Rodrigues (’99), “Santa sangre” di Alejandro Jodorowsky (’89) “Zabriskie point” di Michelangelo Antonioni (’70), “Stregone  di città” di Gianfranco Bettetini (’73), “Sicilia!” di Danièle Huillet & Jean-Marie Straub (’98), “Il raggio verde” di Eric Rohmer (’86), “Ken Park” di Larry Clark (’02).

CURIOSITA’: Marcòs Hernandez, il protagonista, non è un attore professionista ma è stato per alcuni anni il vero autista del padre di Carlos Reygadas. Incredibile come a Cannes a dare scandalo sia stata la scena della fellatio testa-coda: in un festivalone pieno zeppo di critici giovanissimi ed esperiti, nessuno si è accorto che proprio quella è l’unica scena in cui c’è un fallo di gomma e non quello in carne e tessuto spugnoso del protagonista.

Dino Giarrusso

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