Pietro Bartolo dopo 30 anni potrebbe lasciare la sua Lampedusa per volare a Bruxelles. Lo storico medico dell’ambulatorio della piccola isola, portavoce indefesso della politica dell’accoglienza, ha deciso di «entrare in politica». «Non scendere ma entrare», ci tiene a sottolineare. In campo per le elezioni Europee del 26 maggio nel listone che porta il simbolo del Partito Democratico. Lo stesso Pd che Bartolo ha aspramente criticato nell’era renziana, quando a occupare la casella di ministro dell’Interno era Marco Minniti.
Dottor Bartolo, non prova un certo imbarazzo a essere nella lista del Pd? Ha cambiato idea sulla gestione del fenomeno migratorio?
«Ho molto criticato Minniti e non lo stimo per l’accordo sulla Libia che è stato l’inizio della fine. Ma adesso Minniti non lo vedo più in giro e nel Pd non tutti la pensano così».
Quindi ha accettato solo grazie all’elezione di Zingaretti?
«Sì, senza Zingaretti non ci sarei stato. Il Pd deve tornare all’origine, ai rapporti con la base e con chi ha bisogno».
Dopo la tornata elettorale, contribuirà da dentro il partito a questa ricostruzione del Pd?
«Io non faccio parte del Pd, ma ho scelto di aderire a Demos, Democrazia solidale, nuovo partito lanciato da persone a me vicine come pensiero politico e comportamento umano. Parlo di Andrea Riccardi e Paolo Ciani della Comunità di Sant’Egidio e dell’ex viceministro Mario Giro. Gente che si occupa dei più deboli in tutto il mondo, mi hanno chiesto se ero interessato alla candidatura e ho accettato perché l’immigrazione è un fenomeno da affrontare con intelligenza e lungimiranza. “Prima gli italiani” è uno slogan sbagliato, per me “prima chi ha bisogno”».
Demos sarà una costola del Pd?
«Al momento è un partito piccolo, ma possiamo dire che Demos è molto vicino a quello che era il Pd all’inizio. Magari insieme al Pd potrà tornare a rappresentare una sinistra che dà risposte».
È pronto per lasciare l’ambulatorio di Lampedusa dove ha lavorato per 30 anni?
«Sarebbe un abbandono relativo, in realtà me ne occuperei in un altro modo. Per decenni mi sono occupato di queste persone, ho scritto libri, contribuito a film ma non è cambiato nulla. È la politica che deve cambiare le cose».
Cosa va cambiato in Europa sul tema immigrazione?
«L’impegno deve essere comune, va rivisto il trattato di Dublino sul diritto di chiedere asilo solo nel Paese di primo approdo. È sbagliato considerare la Libia un porto sicuro, non lo è mai stato e men che meno oggi. Ma è anche sbagliato che dopo che l’Italia accoglie questi poveracci debba farsene carico da sola, serve un’equa distribuzione».
Cambiare le regole dell’immigrazione in Europa è anche l’obiettivo di Salvini, per farlo lui ha scelto il pugno duro. Qual è la vostra strategia per convincere gli altri Paese a ridiscuterle?
«Io credo che ci sia ancora un’Europa non estremista, ed è con quella che bisogna discutere. Salvini in realtà non vuole un’equa distribuzione dei migranti, non li vuole proprio. E stringe alleanze con chi non ci pensa nemmeno a dividere i migranti che arrivano in Italia, come il premier ungherese Orban. In realtà parlare di invasione è un falso e l’Europa è un continente vecchio, che ha bisogno di migranti per alcuni lavori, come la raccolta nelle campagne. Ma non da schiavi».
Su questo tema il clima generale non è certo sereno. Il sindaco di Lampedusa recentemente ha denunciato i molti messaggi di odio che gli sono arrivati dopo essersi pubblicamente espresso a favore dell’apertura dei porti. Lei vive esperienze simili?
«Messaggi social no, ma lettere private sì, molte con frasi del tipo: “Devi morire tu insieme a loro”, “dovevi annegare quando eri piccolo”. Sono persone plagiate e spaventate. Nutrono odio e pregiudizio ma non ci dobbiamo certo spaventare. Anche loro sono delle vittime».
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