Ballata per Catania

Sono andato molto scettico al centro Zo, convinto che la “Ballata per San Berillo”, di cui avevo molto sentito parlare (Premio Solinas 2003, Novità italiana al Festival Europeo di Drammaturgia Contemporanea Outis 2004, Premio Oltreparola per la Drammaturgia 2005) fosse poco di buono. “Miscellanea di teatro avanguardistico mischiato a cattiverie assortite sulla città di Catania”, pensavo, forse fuorviato dalle sinossi dello spettacolo o, più probabilmente, da un ancestrale e deleterio sentimento di sciovinismo siciliano declinato nella sua peggiore accezione, il campanilismo catanese, per cui tendiamo a rifiutare e a storcere la bocca di fronte a qualunque cosa che tenda a parlare male di noi e della nostra città.

È stato fin dalle prime battute della pièce-monologo che ho avuto l’impressione di essermi sbagliato completamente.

Salvatore Zinna, autore e unico attore, accompagnato solo dalla tastiera di Fabio Grasso, incomincia a raccontare. A raccontare, senza nessuna pretesa avanguardistica, una storia, una storia della sua giovinezza, anzi, per essere più precisi, “del mezzo del cammino di sua (nostra) vita”. Il 5 gennaio 1984, una sera di pioggia, si trova a via Dello Stadio, dentro una macchina con Silvia, una ragazza con cui sta facendo l’amore: ma quella pioggia non è una pioggia: è un pianto. E quel momento non è un momento qualunque. È la chiusura del cerchio di tante storie personali che intessono una storia collettiva, la storia della nostra città.

“Mi unchia a minchia a essere ammazzatu accussì”. Quello che parla è un fantasma, un cadavere, che nella sua lucida oltrevita bussa al finestrino della macchina di Salvo e Silvia per domandare di essere accompagnato all’Etna-bar per comprare un pacchetto di Esportazione senza filtro. È il cadavere della coscienza di Catania. È il cadavere di Pippo Fava.

Condotti da Pippo, Salvo, Silvia, e tutti noi con loro, iniziamo il nostro viaggio reale e metafisico dentro i luoghi ed il tempo, dentro i gironi dell’inferno di Catania.

Sarebbe difficile e castrante riassumere dentro le righe di una recensione le tappe e la magia di questo viaggio. Viaggio dentro i luoghi di una Catania incantata, brulicante e misteriosa, inzuppata di pioggia, tesa, umana e sacra, reale e trasfigurata. Viaggio dentro i momenti della storia, gli anni della guerra, i ruggenti anni ’50 del boom, i tesi anni ’70, gli anni ’80 e la fine di tutto. Viaggio dentro le storie personali e viaggio dentro le coscienze di tutti gli spettatori.

È impossibile per chi è di Catania non entrare dentro quella macchina e farsi accompagnare dentro quei luoghi, quelle storie, quelle sensazioni. E attraverso le storie dei vari personaggi che man mano vengono introdotti si incomincia a delineare la Storia: e il perno su cui tutto ruota è un grande avvenimento, la demolizione e ristrutturazione verso fine degli anni ’50 del quartiere centrale di San Berillo, e conseguente trasferimento di più di trentamila persone dal centro cittadino alla periferia. L’intervento urbanistico più grande avvenuto in una città occidentale dal dopoguerra.

Su questo perno incominciano a ruotare tutte le storie dei personaggi. E a poco a poco si incominciano a delineare i buoni e i cattivi, assolutamente non in senso manicheo ma in un profondo senso sfaccettato e tragico.

Ed è proprio questa la vis tragica del racconto. I personaggi si trovano proprio nel centro del conflitto, nel cuore di quello sventramento materiale e morale, individuale e collettivo, che cambierà la città, per sempre questo è sicuro, nel meglio o nel peggio questo è meno certo.

A Catania, negli anni del dopoguerra e del boom, dentro le strade di San Berillo, nasceva un tessuto imprenditoriale sano, vero, non appoggiato, piccole e medie industrie che producevano beni che avevano un fiorente mercato. “A quel tempo il Nord-est italiano era altrettanto povero della Sicilia, sicuramente più povero di Catania.” Il Veneto adesso è una delle regioni più ricche del mondo: il Nord-est delle piccole e medie imprese. Non Catania, non la Milano del sud, col suo vibrante e sempre risorgente spirito dinamico. Ed è un vero e proprio shock vedere, non con i ragionamenti, ma con l’occhio drammatico, che Catania ha mangiato se stessa. Che quello stesso spirito ruggente che da un lato dava lo slancio, dall’altro era un titanico appetito vorace, che quasi inconsapevolmente cannibalizza, mangia se stesso, mangia i suoi figli, diventa un perverso Saturno, un malvagio Conte Ugolino.

Di fronte al racconto non è possibile non essere rapiti. Io non ce l’ho fatta. Sono stato lì, trepido, ad assorbire ogni verso con quel rapimento poetico che di sicuro non appartiene più alla poesia di questo tempo. Eravamo in Grecia di fronte a una tragedia, o nel medioevo durante una sacra rappresentazione o una ballata popolare.

Una ballata nei cui versi Pippo, Salvo, Silvia, Arturo, Vincenzo, Spanò, Vintaloro, il barista del Motel Agip e il vigile urbano di San Berillo, il caffè Italia e l’ospedale Vittorio Emanuele, Favazza, la Cumacca, la prostituta Culo Grosso, prendono tutti vita, personaggi a tutto tondo, di carne e sangue, che vivono con noi, che si muovono sullo stesso selciato che calpestiamo, che respirano la stessa aria che respiriamo, personaggi candidi, fragili, caduchi, alcuni tragici nella loro tenerezza, alcuni tragici nella loro pantagruelica malvagia possanza, alcuni tragici nella loro meschina guascona cattiveria, alcuni tragici come una rosa spezzata, alcuni tragici nella loro tragicomica vernacolare innocenza. Frasi, passi di dialetto vivo che salta sulla pelle, sui timpani, visi, voci, strade, vie, notti e puppitelli cauri, scarpe da ginnastica sdrucite e fotografie dimenticate, bicchieri di Pernod che diventano le arme del delitto, tutti indizi, tutti tasselli del mosaico, tutti elementi del giallo che si dipana davanti ai nostri occhi.

Quando la catarsi alla fine arriva, ci resta un senso di terrore ma anche tanta commozione e amore per quei personaggi che a questo punto sentiamo fatti della nostra stessa carne, per i fatti narrati che sentiamo la nostra storia, per gli angoli e le pietre di questa città che improvvisamente scopriamo stuprata come la prostituta che Favazza, uno dei personaggi principali di questa Ballata, non sta a me dirvi se buono o cattivo, letteralmente sventra col suo grosso membro. “Su l’amuri è chistu, iu mi tagghiu a minchia” osserva uno degli astanti che guarda. Poi però pure lui “bagna il suo biscottino” dentro le piacenti fattezze di Culo Grosso, la prostituta stuprata.

Del resto non è stato lo stesso Pippo Fava stesso a paragonare Catania a una prostituta affascinante e ripugnante allo stesso tempo? Che vorresti ammazzare di botte ma che ti fa sempre cadere nell’avvinghio del suo abbraccio?

Uno spettacolo unico, avvincente, che lascia senza un filo di fiato, noir, poliziottesco anni ’70, lucido dramma civile, raccolta di bozzetti, tragedia greca, teatro dell’assurdo, sacra rappresentazione, ballata medievale, melodramma ottocentesco, esercizio di virtuosismo, sonata di Paganini, dramma shakespeariano e novella di Giovanni Verga, pezzo fiume prog-rock, film di Pasolini, fotografia degli anni di piombo, film proiettato in una cineforum sessantottino, commedia Dantesca e raccolta di novelle Boccaccesca, farsa vernacolare, affresco neorealista e quadro di Chagal, film surrealista tedesco e Teatro della Crudeltà di Artaud, romanzo epico di Dickens e film di Francis Ford Coppola, quadro di Bruegel e di Munch e allo stesso tempo di Monet, giallo economico e feuilleton, romanzetto di fantascienza e poesia cimiteriale, gotico siciliano, sberleffo futurista e lamento crepuscolare.

Uno spettacolo che non dà leggermente giudizi, non distribuisce facilmente meriti o colpe, e, se li dà, non li grida, mette semplicemente di fronte alle cose, mostra anche i “cattivi” nella loro disarmante umanità. Uno spettacolo che chiude il cerchio, concilia gli opposti e alla fine ci lascia soli nella nostra brutta e bella umanità, caduti, verfallenheit, dentro la nostra brutta-bellissima città.

Che amiamo disperatamente, come ragazzini che fanno l’amore dentro una macchina, come uomini di mezza età di fronte alla prostituta, come devoti di fronte alla Santa.

Alcuni miei amici hanno tenuto un distacco più razionale e hanno individuato le fila drammatiche fin dall’inizio: “ma non avevi capito che Favazza era …? Che la cumacca era …?”

No, non l’avevo capito. Ero rimasto rapito. C’ava cascato cu tutti i scarpi. M’ero lasciato ammaliare da questa Ballata per Catania.

Davide Pappalardo

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