Balestrate, centro giovanile in un ex bene della mafia E il boss resta vicino di casa. «Un’entrata è comune»

«È morto perché fu lasciato solo. Lui, il collega della scorta, il capitano da proteggere. E dopo di loro molti altri. E quella solitudine di 35 anni fa è la stessa che si respira ancora oggi». È una riflessione amara quella di Francesca Bommarito rispetto a quanto fatto fino a oggi contro mafia e criminalità organizzata. Ma è solo una parentesi, perché le lotte che ha combattuto a partire da quella sera del 13 giugno 1983 l’hanno condotta a non poche vittorie. Una fra tutte, quella che si celebra oggi con l’inaugurazione di un centro aggregativo giovanile in via Emanuela Loi a Balestrate, intitolato alla memoria di suo fratello Giuseppe Bommarito, l’appuntato dei carabinieri ucciso quella sera di 35 anni fa, e ai colleghi morti insieme lui, Pietro Morici e Mario D’Aleo, in un agguato mafioso in via Scobar a Monreale. Un centro che oggi sorge in un bene confiscato al locale boss mafioso Luigi Mutari, concittadino di Bommarito, che proveniva proprio da Balestrate. Uno stabile confiscato e affidato al Comune, che lo ha ristrutturato con i finanziamenti del Pon Sicurezza, affidandolo poi attraverso un bando di gara a sei associazioni che da oggi lo gestiranno, organizzando attività destinate ai giovani.

Che, però, dovranno accollarsi il paradosso di avere Mutari come vicino di casa, proprio quel boss di cui hanno riqualificato una porzione dell’abitazione. «Una parte del bene è stata intestata ad altri, non direttamente a lui, un escamotage insomma. C’è persino un’entrata comune, un paradosso in tutti i sensi», dice Francesca. Lei è la presidente dell’associazione Giuseppe Bommarito contro le mafie, che insieme ad altre cinque associazioni del paese gestirà il centro: si tratta di Terzo Millennio, che curerà le attività culturali della memoria; l’associazione musicale Vincenzo Bellini, che si occuperà di laboratori ad hoc per i ragazzi; e ancora l’associazione sportiva Asd Balestrate, l’associazione culturale intitolata al sacerdote Filippo Evola, e infine l’associazione civica Balestrate-Auser. «L’obiettivo è quello di fare rete a partire già da noi associazioni, per integrarci e lavorare al meglio nell’interesse dei ragazzi», continua Francesca.

I suoi non sono stati certo 35 anni semplici. «Ho lottato ogni giorno per ricostruire quel puzzle, quello che era accaduto a mio fratello e ai colleghi – racconta -. Nel ‘91 venne tutto archiviato per insufficienza di prove contro la Cupola sotto accusa, da Riina a Provenzano e Pippo Calò. Fino a che il procuratore Leonardo Agueci non ha riaperto l’inchiesta arrivando, dopo il blitz di San Michele, al cosiddetto processo Tempesta. La prima sentenza arriva il 16 novembre 2001, proprio il giorno della nascita di Riina, ma tutto diventa definitivo solo nel 2012». A infondere voglia di fare a Francesca, però, anche più delle sentenze e delle vittorie giudiziarie, è un particolare fra tutti. «Dopo i funerali a Monreale, la salma di mio fratello è stata riportata a Balestrate – racconta ancora -. Rimasi molto colpita da come la comunità lo accolse, addirittura in molti erano venuti allo svincolo dell’autostrada, la maggior parte a piedi. Una comunità addolorata, ma anche incredula, coinvolta. È una di quelle cose che rimangono e che la mente registra e non lascia andare più. È da questo che è cominciato tutto».

Ed è sempre lei, Francesca, a rompere i primi dieci assordanti anni di silenzio istituzionale su quel triplice omicidio di mafia. Lo fa andando in televisione e parlando pubblicamente nelle trasmissioni dell’epoca, dal Maurizio Costanzo Show a Samarcanda di Santoro. «Non se ne parlava e basta. Quasi come se, in quanto carabinieri, non si fosse trattato di mafia ma di altro, di morte per ordinaria amministrazione». E poi la svolta nel 2007, quando alcuni ragazzi di Balestrate la cercano fino a Milano, dove si è trasferita dopo la laurea per cercare lavoro, e le chiedono di incontrarli: vogliono conoscere la storia di quel concittadino ucciso nell’83. «All’epoca erano troppo piccoli, alcuni non erano nemmeno nati». Nasce un coinvolgimento e una collaborazione mai esistiti prima, e partita in maniera spontanea dai ragazzi di Balestrate, quelli a cui oggi questo centro aggregativo vuole restituire qualcosa di quell’impegno, di quell’esigenza. Ma non c’è solo la struttura di via Loi.

Prima di questo traguardo, l’attività di Francesca si è manifestata attraverso mostre con foto di famiglia, allestimenti, progetti e laboratori, e un immancabile e necessario percorso nelle scuole. A essere coinvolti sono i licei di Balestrate, ma anche quelli della vicina Alcamo e di Partinico, dove lei ogni anno si reca insieme ai capitani dei rispettivi Comuni. Ma non sono solo le scuole a diventare teatro di incontri e dibattiti. Ad aprire le porte agli studenti sono soprattutto i luoghi delle forze dell’ordine, in uno scambio reciproco che punta a mostrare loro la divisa sotto una luce diversa. «C’è poca conoscenza rispetto all’arma, è come se si percepisse distante da noi, guardandola quasi con diffidenza. Faccio in modo che la prospettiva cambi – dice Francesca – e così anche i rapporti: oggi molti capitani sono diventati il punto di riferimento degli studenti con cui si sono confrontati. Ma questa è una cosa da pionieri, me ne rendo conto».

Insomma, di cose in 35 anni ne sono accadute, ne sono cambiate. Spesso in meglio. Ma a sentire ancora Francesca Bommarito, il dubbio che il destino della Sicilia sia ineluttabilmente scritto e legato a doppio filo alla mafia esiste ancora oggi: «Mi chiedo spesso perché questa terra non voglia mai cambiare. Prima c’erano una magistratura corrotta, una società incivile, una chiesa connivente, nessuno che parlasse di mafia. Oggi se ne parla, eccome. Però, rispetto alla mafia, le forze dell’ordine restano sempre un passo indietro, soprattutto per una forte mancanza di risorse e di mezzi. Quand’è che la lotta alla criminalità organizzata diventerà una priorità, non solo nostra ma di tutto il Paese? – si domanda -. Sono felice di fare parte di quella società civile che si batte perché se ne parli sempre, di mafia, e con tutti. Perché di cento persone che si possono incontrare, ce ne saranno almeno un paio sensibili a questi argomenti. Ma che se ne parli sempre, per contrastare quella stessa solitudine che 35 anni fa uccideva mio fratello».

Silvia Buffa

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