Augusta, dibattito sul recupero dei corpi dei migranti «Serve immedesimarsi: se fossero stati figli vostri?»

Nove milioni e mezzo di euro per dare un nome, stimano i soccorritori, a circa 300 persone morte nel naufragio del 18 aprile del 2015, intrappolate nel peschereccio inabissatosi al largo della Libia. È attorno al costo dell’operazione che ha permesso il recupero del relitto, arrivato venerdì al porto di Augusta, che si concentra una parte del dibattito dell’opinione pubblica italiana. Secondo alcuni quel groviglio di cadaveri e scheletri sarebbe dovuto rimanere nel Canale di Sicilia, a 370 metri di profondità. Chi sostiene questa tesi lo fa partendo da motivazioni diverse: «La sepoltura in mare è un’antica tradizione», «Il recupero dei corpi è una cinica operazione di marketing», «Meglio usare quei soldi per aprire corridoi umanitari», sono alcuni dei messaggi sentiti più spesso nei giorni scorsi sui media nazionali. 

Motivazioni che, secondo Paola Monzini, ricercatrice per le Nazioni unite e altre organizzazioni internazionali, ed esperta dell’area mediterranea e dell’Africa occidentale, non possono bastare per desistere dall’operazione voluta e messa in atto, a sue spese, dal governo italiano. «Non farlo sarebbe stato cinico, la dignità umana non ha prezzo. Siamo tutti consapevoli che si tratta di una goccia nel mare, considerato che sono migliaia le vittime delle traversate, ma anche una goccia vale. Che cosa avrebbe fatto ognuno di noi, se dentro quel peschereccio ci fossero stati i nostri figli?». 

Monzini – che ha un dottorato in Scienze sociali dell’istituto universitario europeo di Fiesole e ha scritto diversi libri sul tema immigrazione, pubblicati da Donzelli e Laterza – non ha dubbi sulla bontà dell’operazione italiana. «Dare un’identità ai morti ha un valore se si pensa ai legami che quella persona ha costruito in vita, se riusciamo a porci davanti le persone che non si danno pace per quella perdita, che continuano a cercare fino a quando non trovano qualcosa di certo». Se invece tanti oggi spostano l’attenzione sui costi, secondo Monzini, è perché «in Europa, e anche in Italia, c’è poca sensibilità rispetto a quello che succede al di là del mare. Il fenomeno immigrazione – continua la ricercatrice – diventa un tema nostro solo quando queste persone arrivano con le barche. Non importano le cause a monte. Quello che c’è dietro resta sconosciuto. Allo stesso modo, nel caso dei morti nel peschereccio, non ci importa di chi resta dall’altra parte del Mediterraneo. Sono non persone, buchi neri della conoscenza». 

Così le immagini del relitto potrebbero servire da schiaffo. «I gesti simbolici aiutano a riflettere, a far immedesimare chi sta qui con chi vive sull’altra sponda del mare». Per Monzini l’Italia da una parte «può insegnare molto al resto d’Europa per quanto riguarda il salvataggio di queste persone. Da questo punto di vista – continua – abbiamo un livello di civiltà più alto di altri Paesi, un retaggio che ci portiamo dietro, forse per l’impronta cattolica e per il passato di civiltà marinara. Dall’altra parte però, una volta salvate, le lasciamo nel caos. In questo caso sì che si spendono tanti soldi molto male, e Paesi che si sono dimostrati più cinici nella prima fase, dimostrano invece migliori capacità di assistenza».

Quello a cui si assiste in questi giorni ad Augusta richiama alla memoria la storia dei Fantasmi di Portopalo, la vicenda degli oltre trecento migranti – indiani, pakistani, tamil – che nel 1996 si inabissarono a largo di Portopalo, nel Siracusano. Una tragedia quasi sconosciuta fino a quando il giornalista Giovanni Maria Bellu, dopo aver parlato con alcuni pescatori del posto, inizia le ricerche. «Esattamente vent’anni la convinzione e l’impegno di un solo giornalista permisero di individuare quel relitto carico di morte, oggi – conclude Monzini – è stato finalmente il governo italiano a mantenere fede all’impegno preso e dare dignità a quei corpi». A quella tragedia ancor prima si era interessato Dino Frisullo, che con l’associazione Senza Confine, iniziò a fornire i nomi degli scomparsi Tamil.

Salvo Catalano

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