Articolo 37. Applichiamolo e basta

“Bisognerebbe sempre essere un po’ improbabili”, diceva Oscar Wilde. E bisogna veramente avere il gusto per l’improbabile per tornare a chiedere al governo di Roma con le semplici parole – come ha fatto qualche giorno fa il parlamentare nazionale del Pdl, Enrico La Loggia, l’applicazione dell’articolo 37 dello Statuto. Iniziamo il nostro ragionamento con una premessa: noi siamo convinti che l’articolo 37 dello Statuto vada applicato, magari insieme con altre parti dello Statuto rimaste, fino ad oggi, lettera morta.
Ciò posto, vogliamo ricordare a noi stessi, prima che all’onorevole La Loggia, che un tentativo – che all’inizio sembrò serio – di applicare l’articolo 37 dello Statuto è stato effettuato nella legislatura 2001-2006. Al governo nazionale – di centrodestra – c’era Silvio Berlusconi. Al governo della Sicilia pure di centrodestra – c’era Totò Cuffaro. Ministro delle Regioni era proprio La Loggia.
Ricordo che la discussione tra Roma e Palermo andò avanti per quasi un anno e mezzo. Alla fine il grande annuncio in pompa magna: l’articolo 37 dello Statuto siciliano sarebbe stato finalmente applicato. I grandi gruppi imprenditoriali nazionali, con stabilimenti in Sicilia e sede sociale nel resto d’Italia (per lo più in Lombardia: diciamolo), avrebbero finalmente pagato le imposte in Sicilia.
Ripeto: a me sembrava una cosa seria. Anche se non riuscivo a scrollarmi dalla mente un retropensiero: allora – come del resto oggi – ero convinto che Berlusconi avrebbe preso in giro il Sud e, in particolare, la Sicilia. Ero convinto, per esempio, che il Ponte sullo Stretto di Messina, promesso già dal Cavaliere nella campagna elettorale del 2001, era solo una trovata pubblicitaria. Ero convinto che Berlusconi non avrebbe mai aperto i casinò in Sicilia (come aveva promesso sempre nella campagna elettorale del 2001). Così quando i giornali cominciarono a scrivere dell’imminente applicazione dell’articolo 37 in Sicilia, beh, cercavo di capire dove poteva celarsi il ‘trucco’.
Ricordo il ‘grande’ giorno – mi sembra che ci fu di mezzo una firma – con tutti i protagonisti di una giornata che sembrava ‘storica’. C’era Berlusconi, c’era il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, c’era Totò Cuffaro, c’era il ministro La Loggia e altre personalità. Belle parole e promesse solenni. Tutto sembrava fatto. Ben fatto.
Qualche settimana dopo, la sorpresa. Annunciata, ovviamente, sui giornali: Roma, disse Tremonti, era sì disposta a riconoscere alla Sicilia le imposte che, fino ad allora, i grandi gruppi nazionali presenti in Sicilia pagavano nelle regioni del nostro Paese dove tenevano la ragione sociale, ma in cambio – “simmetricamente” – la Sicilia avrebbe dovuto cominciare a gestire, con proprie risorse, le competenze residue che allora – e ancora oggi – lo Stato continua a gestire nella nostra Isola, a cominciare dalle scuole.
Quello di Tremonti era un atto ‘banditesco’. Al quale la classe dirigente siciliana avrebbe dovuto rispondere per le rime. Perché un conto è l’articolo 37 dello Statuto – che ha vita in sé – e altra e ben diversa cosa è la questione di una risoluzione complessiva dei problemi finanziaria tra Roma e la Sicilia che dovrebbe trovare spazio di discussione e approfondimento in altra sede (mettendoci dentro, magari, l’articolo 36 e l’articolo 38 del nostro Statuto e, perché no?, anche certe sentenze della Corte Costituzionale, che risalgono agli anni ‘70 e agli anni ‘80, sentenze che, proprio in materia finanziaria, hanno dato ragione alla Sicilia ma che, chissà perché, non hanno mai trovato applicazione).
Invece – e questo dobbiamo dirlo con forza – la classe politica di governo siciliana di quegli anni, a Palermo come a Roma, accettò supinamente (a mio modesto avviso ‘ascaristicamente’) le “simmetrie” di Roma. Ricordo, anche, che per lunghi mesi gli uffici dell’assessorato al Bilancio ci deliziarono con conteggi più o meno barocchi su cosa sarebbe accaduto se lo Stato avesse ceduto alla Sicilia le competenze residue (per lo più il pagamento degli stipendi ai docenti e qualche altra cosa).
Tutti conteggi esatti, per carità. Ma che nulla avevano a che fare con la questione dell’articolo 37. Che, fino a prova contraria, è precedente alla Costituzione italiana. La verità è che l’articolo 37 del nostro Statuto andrebbe applicato. Soprattutto con riferimento a quei grandi gruppi nazionali – come le raffinerie di Augusta e, in generale, con tutti i gruppi che operano nella chimica – che lasciano nel nostro territorio inquinamento, malattie, morte e bambini nati deformi.
Un governo regionale serio dovrebbe aprire una vertenza su questo fronte. Anche durissima, se il caso lo richiede. Non minacciando, ma ricorrendo semplicemente allo “stop” alle raffinerie e alle industrie che operano nel nostro territorio inquinandolo e non pagando per i danni che provocano. In un Paese civile un’azienda non dovrebbe inquinare il territorio. Se inquina deve pagare i danni. Questo è un fatto pacifico. Invece, a Priolo, per lunghi anni, un gruppo imprenditoriale nazionale ha scaricato in mare quintali di mercurio. E se ha smesso, ebbene, il merito non è della Regione, che non mai intervenuta, ma di un giovane magistrato che ha avuto la forza e il coraggio di porre fine a questo scempio del territorio.
Il buon senso, insomma, impone la tutela del nostro ambiente e il risarcimento dei danni. Noi, addirittura, abbiamo dal 1946 uno strumento che impone alle aziende non siciliane che operano in Sicilia di pagare le imposte qui (con questi soldi si potrebbero riparare almeno in parte i danni prodotti al nostro territorio) e non lo applichiamo perché a Roma non piace.
Da qui la nostra proposta: il governo regionale applichi l’articolo 37. Roma si opporrà? A questo punto si aprirà una vertenza con annessi e connessi. Dove, tra gli annessi e connessi ci metteremo pure la chiusura delle raffinerie e delle aziende che operano nella chimica. E come finisce si racconta.

 

Giulio Ambrosetti

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