All’Assemblea regionale siciliana «esistono cose che non esistono», per citare un noto trailer del comico Maccio Capatonda. L’ennesimo capitolo ai confini della surrealtà è stato scritto in sede di approvazione della Finanziaria regionale, balzata in cima alle cronache non tanto per le manovre o per la velocità con cui è stata approvata, ma per l’ormai famigerato aumento da 890 euro lordi al mese per le già cospicue pigioni dei parlamentari siciliani. Una vicenda che, ancora oggi, non smette di far parlare di sé, non tanto per la sostanza dei fatti: l’aumento – stavolta – non l’hanno deciso i deputati, si tratta di un legittimo adeguamento in linea con le variazioni Istat dettate dall’inflazione galoppante nel Paese e reso automatico da una legge nazionale datata 2014. Ma se ancora oggi si parla di stipendi è perché sono stati gli stessi deputati a far calare su una questione, in fin dei conti molto semplice, la solita aura di imbarazzo farsesco.
Com’è ovvio, nonostante si trattasse di «un automatismo» e non di una cosa voluta, durante la discussione quelli che hanno accolto con parere pubblicamente favorevole l’aumento si sono contati sulle dita di una mano sola: Antonello Cracolici (Pd), che ha rivendicato di essere «un uomo libero e non mi vergogno di dire che sono contro l’abolizione della norma e difendo l’autonomia di questa Assemblea», il cuffariano Carmelo Pace e gli assessori Girolamo Turano (Lega) e Giovanni Di Mauro (Mpa), tutti portatori di posizioni più che legittime. Più o meno favorevoli i deputati del Movimento 5 stelle, con una sorta di «accettiamo questi soldi e poi li restituiamo» o qualcosa del genere, contrari Fratelli d’Italia, con il presidente dell’Assemblea Gaetano Galvagno che aveva pure proposto di «dare in beneficenza la parte di stipendio relativa all’aumento». Insomma, soldi appiccicosi, pare, di cui proprio non ci si poteva liberare. Quanto meno fino alla proposta di Cateno De Luca (Sicilia vera), che ha mostrato a tutti – sfidandoli pure dal banchetto di sala d’Ercole – quanto fosse semplice rinunciare all’adeguamento: bastava un emendamento che abrogasse una sola riga di testo, quella che faceva riferimento all’adeguamento. Fine.
Fine? Neanche per idea, perché nella notte – l’orologio segnava le 4 del mattino – l’emendamento di De Luca è stato votato e pure bocciato per una manciata di voti. Voti che ci sarebbero pure stati se non si fosse astenuto l’intero gruppo dei seguaci di Cateno De Luca, lo stesso che aveva proposto l’emendamento che «nessuno ha avuto il coraggio di presentare» e che poi se la prende sventagliando accuse da una parte e dall’altra dell’emiciclo. Insomma, alla fine, considerate anche le tanto ventilate quanto presunte pressioni dai vertici di Fratelli d’Italia per spingere i propri deputati alla rinuncia, tenuto anche conto del voto segreto sull’emendamento De Luca chiesto e ottenuto da Gianfranco Miccicchè (Misto), la si butta in caciara per non fare capire da quale mano è partito il sasso, nel più classico del “tutti colpevoli, nessun colpevole”.
E a fare cadere un già flebile castello di carte c’è l’azione, compiuta in anticipo da Nello Dipasquale (Pd), ma resa pubblica solo ieri, che ha spiegato – carte alla mano – che bastava una semplice richiesta protocollata per rinunciare all’aumento di stipendio, senza che nemmeno ci fosse bisogno di aspettare le quattro del mattino. «Chi tra i parlamentari dell’Ars avesse voluto rinunciare all’adeguamento Istat – dice Dipasquale – avrebbe potuto farlo in un modo semplicissimo: andando all’ufficio di Ragioneria, munito di carta e penna e chiedendo per iscritto la non applicazione della legge per l’anno in corso, rinunciando quindi alle somme previste. Io l’ho fatto il 7 febbraio – protocollato l’8 mattina – prima dei clamori mediatici». Poi la stilettata: «Però attenzione: chiunque dica di disconoscere l’adeguamento Istat, evidenziato nella relazione di accompagnamento al bilancio, non è in buona fede. O peggio, non legge gli atti che si votano in Assemblea». E sulla scia dell’ex sindaco di Ragusa oggi anche il collega e compagno di partito Giovanni Burtone che ha imbracciato carta e penna.
«Ho considerato tale aumento assolutamente non rispondente alle priorità della nostra comunità – la versione di Burtone – Ho posto un problema di metodo, il modo attraverso il quale è stato fatto passare, e ovviamente di merito. Ho ritenuto che sia una di quelle misure che contribuiscono ad allontanare i cittadini dalla politica alimentando risentimento e rancore in una fase storica in cui ci sarebbe invece bisogno di partecipazione e impegno. Per questo ho inteso rinunciare all’adeguamento spettante con l’auspicio che tale risparmio possa essere, in qualche modo, indirizzato verso iniziative pubbliche di sostegno ai fragili e ai meno abbienti». Lo stesso Burtone che in piena discussione aveva parlato di «decisione inserita in maniera poco trasparente durante l’approvazione del bilancio dell’Assemblea». E per oggi è tutto, in attesa delle prossime rinunce o delle prossime trovate improbabili.
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