«I padroni della lingua sono quelli che la parlano». Poco importa, quindi, secondo il professore Salvatore Trovato, ordinario di Linguista generale all’università di Catania, chi abbia ragione nell’eterna disputa tra Palermo e Catania sul genere del pezzo di rosticceria più famoso di Sicilia: arancino o arancina? «Discuterne in termini normativo-puristici è sicuramente di scarsa o nessuna utilità», mette le mani avanti il docente. Che però non si è sottratto, da buon linguista, ad approfondire la questione. «Ma – scrive nella sua relazione sul tema, presentata la scorsa estate al Convegno Internazionale di Dialettologia Uno, nessuno, centomila -, piuttosto che schierarsi per l’una o l’altra forma, operazione poco producente, credo sia più utile cercare di capire il perché dei due generi, facendo, sulla base della documentazione disponibile, la storia della parola».
Si parte da una certezza: alla lingua italiana «è giunta prevalentemente nella forma al maschile e in questa forma è stata recepita dalla maggior parte dei vocabolari italiani moderni». Ed è paradossalmente un palermitano, Giuseppe Biundi, che per la prima volta, nel 1851, registra su un vocabolario siciliano-italiano il termine arancinu, con questo significato: «Dicesi fra noi una vivanda dolce di riso fatta alla forma dello arancio». In vocabolari precedenti (Del Bono, Pasqualino, Mortillaro) la parola esiste ma non viene ancora associata alla cucina. Piuttosto viene presentata con i significati di «colore arancio, dorè, croceus», «del color della melarancia, rancio, croceus».
Eppure nella lessicografia italiana è la forma femminile ad arrivare per prima. Ed è un catanese a sdoganarla: arancina è infatti presente nel romanzo I Vicerè di Federico De Roberto, nel 1894. Per poi fare la sua comparsa sul dizionario Zingarelli del 1917. Perché lo scrittore etneo usa la versione al femminile? Secondo il docente di Linguistica, è dovuto «all’ambiente famigliare: la madre, pur se di origine catanese, era nata e vissuta per un certo tempo a Trapani, nel cui dialetto è in uso la forma arancina». In ogni caso, Trovato, sulla base dei documenti consultati, conclude che «si può ragionevolmente pensare che arancinu era presente, nella seconda metà del XIX secolo, a Palermo, laddove la forma al femminile appare nella stessa città a distanza di più di mezzo secolo: nel 1920. Apparentemente – aggiunge – tutto lascia pensare che arancia sia una forma innovante rispetto ad aranciu e sostanzialmente un italianismo che ben si spiegherebbe nel dialetto del capoluogo dell’isola».
Arancina, al femminile, però, si usa ancora oggi in città siciliane molto lontane da Palermo, come ricorda il linguista. «Non escluderei – scrive – che i contatti, sia pure sporadici con Palermo, abbiano potuto diffondere la forma palermitana al femminile anche in aree lontane, come Favara, Riesi, Avola e Noto, Giarratana, Ragusa e Vittoria, certo attraverso la Sicilia centrale, come mostra la forma di Piazza Armerina». Un viaggio da una parte all’altra dell’isola che, a differenza di quanto si possa pensare, in alcuni casi è piuttosto recente, soprattutto per quel che riguarda i piccoli paesi. «L’arancino è un cibo che in passato si trovava nelle friggitorie e nelle tavole calde delle città, non certo nei piccoli centri, dove era inesistente la cucina di strada, ma anche le friggitorie e le rosticcerie. A questo proposito – continua il docente – posso personalmente testimoniare che nella mia Nicosia gli arancini sono diventati popolari solo negli anni ’60 del secolo passato, quando cominciarono ad essere offerti agli invitati in occasione del rinfresco di nozze e poi venduti nella prima friggitoria pubblica».
Infine Trovato dedica un passaggio ai motivi che per cui si è associata la parola arancino/a alla pietanza. «Non tanto per la forma dell’arancia, quanto per il suo colore», sottolinea. È così che si spiega perché la parola si usa anche «quando l’arancino viene fatto in forma di pigna, come si usa nella Sicilia orientale. Per quel che riguarda, invece, la diatriba catanese-palermitana sul genere del nome – conclude – credo che in una prospettiva laica, non è opportuno considerare errore in italiano l’eventuale uso al femminile della parola, ma solo una variante possibile».
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