«Aprite la piazza»

“Aprite la piazza!”. “Ma che significa?”. “Boh, forse è un modo per dire ‘cercate la verità’”. Poi un botto, che in Piazza Fontana a Milano, nel giorno della commemorazione, provoca una scossa dentro. Gente che corre verso il fondo, schiva il palco e gira a sinistra, verso via Larga. I poliziotti – “ma da dove sono usciti tutti questi?” – che in modo confuso serrano le file e si dirigono verso lo stesso punto. Il fumo rosso impedisce la visuale, poi il vento rende tutto chiaro: centinaia di persone sono ferme all’ingresso laterale di piazza Fontana, bloccate da transenne tirate su proprio all’ultimo e da un cordone in divisa.

In piazza Fontana, alle 16:37 del 12 dicembre, c’era appena stato un minuto di silenzio. Era arrivato un corteo, composto e sobrio, di giovani e, soprattutto, adulti che avevano riempito quasi tutto lo spazio disponibile. Qualcuno parlava dal palco ma, nonostante il silenzio, le parole risultavano indistinguibili. Colpa di un’amplificazione non proprio delle migliori. La folla davanti faceva il resto, impedendo di identificare l’oratore. Poi i fischi. “Letizia, vergogna!”. Una voce femminile prende la parola: è il sindaco di Milano Letizia Moratti. Qualche urlo ingeneroso c’è stato, è vero. Non fosse altro perché ancora il discorso era appena iniziato. Ma basta andare in giro per Milano, sentire le chiacchiere della gente, leggere le scritte sui muri per capire che quello era uno sfogo. Non era il momento adatto, è vero anche questo, ma è durato poco. Perché dopo qualche minuto le parole urlate erano sempre le stesse e sempre di più. E non importava chi stesse parlando, fossero anche i familiari delle vittime, perché non era a loro che si rivolgevano.

“Aprite la piazza!”. Prima una voce, poi cinque, poi dieci, poi cento, poi non si capiva più nulla. E quello scoppio. Era solo un fumogeno rosso dell’altro corteo, appena arrivato, in ritardo ma non indesiderato, almeno per la gente raccolta in piazza. Erano soprattutto ragazzi, ma anche adulti, aderenti a Rifondazione e anarchici. Sventolavano al freddo molte bandiere rosse e nere. Avevano un camioncino con sopra una ragazza: sola con un megafono, ma le sue parole si ricevevano forte e chiaro. Piccola e rossa in viso, non si capiva proprio da dove potesse uscirle tutta quella gran voce. E le sue erano urla pacate, per quanto assurdo possa sembrare. Le migliaia di persone con lei volevano entrare in piazza Fontana, commemorare anche loro insieme agli altri cittadini. Chi dentro c’era già era d’accordo: chiedevano una città unita nel ricordo. Per questo fischiavano e urlavano.

Ma la polizia sembrava non cedere di un millimetro e la tensione era sempre più palpabile. Così capita che ti ritrovi esattamente a metà tra i due eserciti, con una bottiglia di vetro che ti manca per un soffio – una molotov non riuscita, che puzza ma non brilla – e un altro tanfo insopportabile, quello del carburante delle due camionette della polizia perennemente in accensione. “Chissà quanta benzina sprecata e che inquinamento!” pensi, ma non è il momento adatto. I petardi ci sono stati, ma i sassi non li hai visti e ti sembra che la situazione, comunque, non stia degenerando come potrebbe. Ma forse hai solo visto male.

All’improvviso e senza motivo apparente i poliziotti fanno dietrofront. Via le camionette, via il cordone, libero accesso alla piazza. Urla di gioia, il camioncino dei manifestanti che spara “Bella ciao” a tutto volume, un fiume di gente che ordinatamente si dirige verso il centro della piazza. Ma un motivo c’è sempre e c’è stato anche ieri a piazza Fontana. Sul palco non c’era più nessuno: finiti gli interventi dei rappresentanti delle istituzioni e finita la partecipazione dei cittadini. In definitiva, finita la commemorazione.

 

 

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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