Appello trattativa: Giovanni Ciancimino e il ritratto di don Vito «Mio padre mi parlò delle richieste avanzate dell’altra sponda»

«La mente cerca di cancellare. Succede, poi, a 64 anni. Comunque rispondo a tutte le domande». Così l’avvocato Giovanni Ciancimino, uno dei cinque figli di don Vito, ex sindaco mafioso di Palermo, sentito oggi al processo d’appello sulla trattativa tra lo Stato e la mafia. Quattro anni fa durante il primo grado di questo stesso processo aveva deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere perché all’epoca suo fratello era ancora imputato per calunnia. Una scelta differente rispetto a quella fatta nel 2009, quando parlò durante il processo di primo grado a carico del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, e alla medesima presa nel 2014 a Caltanissetta in occasione del Borsellino quater

«Posso dire che mio padre e mia madre sono stati sempre separati. Mio padre non aveva una vita familiare molto consona, per usare un eufemismo – racconta -. C’erano in atto delle separazioni, ma non acclarate e codificate da una sentenza di separazione. Mio padre era un politica della Democrazia cristiana, quindi vade retro una separazione. Ma intanto dormivano in camere separate». Lui, tra l’altro, don Vito, stava a Roma, mentre la moglie a Palermo. «Scendeva quando voleva qui». Tra i loro beni ci sono state, in passato, anche tre ville, due a Mondello e una all’Addaura. Anche se pare che Vito Ciancimino raramente tornasse a Palermo d’estate: «Lui non sapeva nuotare, nella mia vita non l’ho mai visto in costume infatti – rivela ancora il figlio -. I suoi erano soggiorni saltuari, lui stava fisso a Roma. Non amava neppure l’aereo, lo ha preso raramente, preferiva spostarsi in treno».

La famiglia vive, all’epoca, in una casa di via Sciuti, due appartamenti uniti, «uno a destra e uno a sinistra, a ferro di cavallo, e il salone in mezzo. Noi stavamo sempre con i nostri nonni, che fungevano da padre e da madre con noi bambini. Le volte che avrò mangiato con mio padre si contano sulla punta delle dita, lui stava sempre in camera da letto». Una vita famigliare totalmente assente, manchevole, quella raccontata da Giovanni Ciancimino, che con quel padre, di fatto, non sembra abbia avuto mai un vero rapporto. Laureato con successo, negli anni ’80 lui inizia già la carriera di avvocato, mentre, qualche camera più avanti, nella stessa casa, nella stessa famiglia il padre si rendeva uno dei tramiti di Cosa nostra con lo Stato per porre fine alla stagione stragista.

«Con mio padre non si dialogava – dice ancora -. Mi ricordo il via vai di avvocati per casa, a volte anche avvocati che erano stati professori miei. A volte pretendeva di contraddire un avvocato, professore d’università, con argomentazioni del tutto risibili. Una cosa da impazzire, io avrei dovuto strappare la mia laurea. E faceva così anche per tematiche del tutto banali, pure uno studente al primo anno di Legge avrebbe potuto dirgli “ma che stai dicendo?”». Don Vito va neppure alla sua laurea né, successivamente, al giuramento di avvocato. Un disinteresse totale, mostruoso. «Mio padre non era una persona affettuosa. Aveva una sua teoria: “tu vai bene a scuola? bene, allora non mi interesso”. Ho reso l’idea?».

Particolare, invece, il rapporto col giudice Falcone, che interrogò a lungo Giovanni Ciancimino, all’epoca indagato per concorso in esportazione di capitali all’estero. «Conoscevo meglio Borsellino, era il cognato di un mio diretto superiore. Fu lui a tranquillizzarmi quando Falcone mi chiamò per il primo interrogatorio». Nel ’92, dopo la strage di Capaci, Ciancimino junior va trovare il padre a Roma. «Non ho memoria di litigate violente come quella – dice -. Era insolitamente gentile e già questa cosa mi preoccupò, non ero abituato a queste forme. Io ero molto turbato, Falcone era stato appena ucciso e io lo conoscevo molto bene. Lui mi disse “questa mattanza deve finire. Sono stato contattato da personaggi altolocati per trattare con l’altra sponda per porre fine a questa mattanza“, facendomi capire che ne avrebbe tratto dei benefici. Io rimasi interdetto, queste cose che diceva erano estenuanti, mi svegliava pure di notte per dirmi queste cose. “Io sono il capro espiatorio, la vittima sacrificale, l’agnello“, mi diceva».

Possibile, però, che Giovanni, non solo in quanto figlio di don Vito ma in qualità anche di avvocato non abbia mai approfondito i fatti in cui rimaneva coinvolto il padre? «Erano stati eventi molto traumatici, dall’arresto di mio padre a questo impatto mediatico sconvolgente che ne derivò. A volte nemmeno leggevo i giornali, la mia mente rifiutava tutto. E poi che apporto avrei potuto dare? Io facevo il civilista in banca, non avevo la curiosità di leggere atti, carte, i faldoni che lui scriveva». Era convinto, all’epoca, che in quanto politico suo padre ricevesse qualunque tipo di persona, per casa vedeva passare personaggi di ogni tipo, anche scortati, «era frequentata da tutti».  Ma interagire con don Vito è praticamente impossibile: «I dialoghi erano scarsi, sembravano monologhi, fargli domande era difficile, non c’è mai stata questa cultura a casa mia. A mio padre – continua ancora – le persone normali non piacevano».

A essere tirato in ballo oggi dal presidente Pellino è anche un secondo incontro tra Giovanni e il padre, questa volta a Palermo, di poco successivo alla morte di Paolo Borsellino. «Esordì con una frase odiosissima, “tu che sei avvocato”, dall’alto della sua supponenza. Mi chiese cosa fosse la revisione del processo – ricorda Giovanni Ciancimino -. Glielo spiegai e poi lui se ne uscì con quella frase da brividi, “allora è possibile anche la revisione del Maxi processo?“. Io mi sentii preso dai turchi, si parlava del nulla giuridico. Mi chiese anche alcuni dettagli della Legge Rognoni-La Torre (la legge che introdusse per la prima volta il reato di associazione mafiosa, il 416 bis Ndr)». Mentre parla, Ciancimino senior tira anche fuori dalla tasca, a detta del figlio, un foglietto arrotolato, che però non gli mostra e dove ci sarebbero state annotate le «richieste della trattativa, le richieste dell’altra sponda». Non dice mai «mafia» don Vito, era sempre soltanto «l’altra sponda. Un modo di fare una differenziazione con lui, sapevo benissimo a cosa si riferiva e la interpretavo come una sua presa di distanza. E quei due argomenti, la revisione del Maxi processo e la legge Rognoni-La Torre, erano gli elementi della trattativa». 

«Ancora oggi quando di notte sto male e mi sveglio improvvisamente, è come se temessi di trovarmi ancora a casa con mio padre. Ho reso l’idea? – torna a dire Giovanni Ciancimino -. Ricordo che lui scriveva di continuo, scriveva e faceva fotocopie. Scrisse pure un libro, Le mafie, che non ho mai letto». Don Vito, in un terzo incontro, chiede al figlio di fargli ottenere persino un passaporto, ma sulle sue spalle pesava già una condanna a dieci anni. Il figlio si rifiuta, ma lui trova lo stesso il modo di avanzare l’istanza, finendo poi per essere arrestato. «Se mio padre avesse letto Virgilio, sarebbe stato meglio per tutti. Io ho sempre svolto la mia vita in maniera normale, metodica, di una semplicità unica, di mattina andavo in ufficio e uscivo solo alle sei. Nemmeno dopo tutto questo cambiai stile di vita, malgrado la star in famiglia…io non c’entravo niente». 

Silvia Buffa

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