Antonio Massimino, le «bassezze umane» del papa nuovo Profilo del capomafia della famiglia di Agrigento-Villaseta

Si definiva il «papa nuovo», veniva scelto come giudice di controversie tra i privati e avrebbe terrorizzato una donna costringendola a ricevere palpeggiamenti e minacciandola di violentarla, solo per punire il marito. Il ritratto del boss Antonio Massimino che viene fuori dalle carte dell’inchiesta Kerkent è quello di un uomo la cui leadership si fondava sul timore che, negli ambienti della criminalità organizzata, è spesso anticamera del rispetto.

Nel mondo alla rovescia dove Massimino e soci si muovono sono tanti gli episodi in cui il potere del capomafia si manifesta. Dopo due condanne definitive nei processi Akragas e San Calogero, che gli sono valse un lungo periodo dietro le sbarre, il 50enne nel 2015 eredita il ruolo di guida della famiglia mafiosa di Agrigento-Villaseta dal boss Lillo Lombardozzi, quest’ultimo a sua volta in passato capace di interloquire direttamente con Bernardo Provenzano. Nel giro di pochi anni, Massimino sarebbe stato in grado di intavolare rapporti con le altre famiglie mafiose della Sicilia Occidentale, anche oltre i confini regionali per garantire le forniture di droga gestite dal proprio gruppo. Tuttavia il carattere del boss emerge da due fatti che nulla hanno a che vedere con business lucrosi: nel primo caso sarebbe intervenuto per porre il veto su un omicidio, pensato per vendicare il danneggiamento dello scooter del figlio; nel secondo caso ordina e partecipa al sequestro di un uomo, e poco dopo della moglie, perché accusato di avere comprato una Cinquecento con un assegno falso.

La prima vicenda si svolge tra il 15 e il 19 ottobre 2015 a Porto Empedocle. In piena notte, in via Aldo Moro, un ciclomotore viene dato alle fiamme. I sospetti del proprietario ricadono subito su un 31enne che la sera prima aveva avuto uno screzio con il figlio del primo. Nel giro di poche ore, matura il proposito di uccidere il responsabile. Per farlo però c’è bisogno del permesso di chi da quelle parti comanda: Antonio Massimino. L’incontro si svolge in un casolare, alla presenza di altre tre persone e ha un esito preciso: nessun omicidio sarebbe stato commesso, ma il responsabile avrebbe dovuto risarcire i proprietari con un ciclomotore nuovo e simile a quello distrutto. «Hai visto? Ha fatto come un signore: è venuto a chiedere il permesso, perché non può fare che prende a uno e gli spara», commenta Alessio Di Nolfo, uno degli uomini di fiducia di Massimino e tra i 32 arrestati di ieri. 

Una collaborazione nata a sua volta dalla coercizione: «Io lavoravo alla grande e lavoravo per i cazzi miei – dice a nel novembre di quattro anni fa Di Nolfo al suo capo -. Lavoravo con i palmesi. Tu poi hai capito il mio giro e mi hai chiuso la porta a Palma e mi hai chiuso la porta là, per quale motivo?». La risposta di Massimino è sintetica: «Eh, perché devi lavorare con me». Di Nolfo non manca occasione per mostrare il proprio attaccamento al boss. In un caso racconta di un episodio in cui Massimino avrebbe sottomesso una famigia palmese legata alla Stidda: «Undici fratelli, sai come è andata a finire? Si sono messi in ginocchio, si sono messi a piangere». L’agiografia criminale di Massimino passa anche per l’esaltazione fisica: «Quello un animale è, ha una forza…», commenta sempre Di Nolfo, per poi aggiungere che il boss è capace di mangiarsi «cinque piatti di pasta».

Ma la tracotanza di Massimino avrebbe trovato spazio anche sotto forma di concreti atti di violenza. A fine ottobre, una donna parla agli inquirenti, pur ammettendo di avere paura di subire ritorsioni. Fa riferimento a un episodio che sarebbe accaduto pochi giorni prima e avrebbe visto protagonista proprio il capomafia. «Mi ha tolto la sciarpa chiedendomi insistentemente di togliere anche la maglietta – mette a verbale -. In seguito si è seduto davanti a me e con le sue gambe stringeva le mie e, nonostante cercassi di svincolarmi, lui continuava a stringerle sempre più forte, quindi con le mani cominciava ad accarezzarmi le gambe». Si tratta soltanto dell’inizio di un racconto fatto di soprusi e di tentativi di costringerla a fare sesso davanti al marito, accusato di avere truffato un rivenditore d’auto e di non aver ripagato un debito. 

Il proposito di Massimino sarebbe stato interrotto soltanto dagli obblighi collegati alla sorveglianza speciale e alla connessa esigenza di rientrare a casa, ma per il capomafia si sarebbe trattato soltanto di un rinvio: prima di andare via, infatti, l’uomo avrebbe portato via le chiavi di casa dell’appartamento della coppia. «E non mi dire più che ci sono i bambini assieme, perché ammazzo pure i bambini e pure a sua moglie», dice Massimino parlando con un suo collaboratore della coppia e senza sapere di essere ascoltato dagli uomini della Direzione investigativa antimafia, che da lì a pochi mesi lo avrebbero definito capace di «bassezze umane» di cui non si aveva notizia da tempo.

Simone Olivelli

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