Antoci, l’indagine e i dubbi della commissione Antimafia «Attentato mafioso stragista è l’ipotesi meno plausibile»

«Alla luce del lavoro svolto da questa Commissione corre l’obbligo di evidenziare che, delle tre ipotesi formulate, il fallito attentato mafioso con intenzioni stragiste appare la meno plausibile». Cinque mesi di audizioni finalizzate non a dare risposte certe – perché continuano a non essercene – ma a illuminare le moltissime contraddizioni di un caso irrisolto. La commissione regionale Antimafia approva all’unanimità e rende pubblica la relazione di oltre cento pagine sul presunto attentato che l’ex presidente del parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci ha subito la notte tra il 17 e il 18 maggio del 2016 sulla strada statale che collega Cesarò a San Fratello, sui Nebrodi. Nelle conclusioni si sottolineano come sussistano «molte domande rimaste senza risposta, contraddizioni emerse e non risolte, testimonianze divergenti, criticità investigative». 

La commissione ha provato a verificare tre ipotesi, emerse dalle audizioni: un attentato mafioso fallito che intendeva eliminare Antoci; un atto dimostrativo destinato non a uccidere ma ad avvertire (la vittima o altri ambienti criminali locali sui quali far ricadere la responsabilità del fatto); nessun attentato ma solo una messinscena. Su un punto, però, l’Antimafia non esprime dubbi: se anche fosse stata tutta una finzione, Antoci sarebbe «doppiamente vittima, in quanto del tutto inconsapevole di tale simulazione». Alla fine si sottolinea che «restano attuali le tre ipotesi formulate». Ma allo stesso tempo lo scenario dell’attentato mafioso con intenzioni stragiste viene indicato come il meno plausibile. Moltissimi elementi, infatti, portano a dire che l’obiettivo del presunto agguato non era uccidere, nonostante la presenza a bordo strada di due bottiglie molotov. «Io mi sono sempre chiesto – dice alla commissione uno dei magistrati che condussero le indagini Angelo Cavallo – queste bottiglie poi le avrebbero veramente lanciate? Non sono così sicuro. Secondo me bastava quell’attentato così come era stato fatto». Una riflessione di cui però non c’è traccia nella richiesta di archiviazione della Procura, di cui il pm Cavallo è stato uno dei firmatari. 

Tuttavia, nel documento con cui la Procura di Messina chiede l’archiviazione, visti i molti dubbi rimasti, i pm non parlano di modalità mafiosa dell’agguato. Espressione che invece il giudice inserisce nel successivo decreto di archiviazione. Una differenza anomala che la commissione Antimafia mette in luce, anche perché lo stesso Antoci ha sempre rivendicato di essere stato vittima di un agguato mafioso, certificato proprio dalle parole usate nel decreto di archiviazione. 

Il lavoro della commissione ha il merito di provare a entrare nelle domande rimaste senza risposta anche dopo due anni di indagini giudiziarie, come spiegato in anteprima da MeridioNews nell’ottobre del 2018. Lo fa convocando tutti i protagonisti e sottoponendogli le incongruenze emerse dalle loro azioni e dalle loro dichiarazioni.

I DUBBI SUL COMPORTAMENTO DELLA SCORTA
«Non è plausibile – scrive la commissione – che quasi tutte le procedure operative per l’equipaggio di una scorta di terzo livello, qual era quella di Antoci, siano state violate (l’auto blindata abbandonata, la personalità scortata esposta al rischio del fuoco nemico, la fuga su un’auto non blindata, l’aver lasciato due agenti sul posto esposti a una reazione degli aggressori…)». 

In particolare l’allora caposcorta Salvatore Santostefano conferma alla commissione che fu lui a decidere di trasferire Antoci nell’auto non blindata di Manganaro: «Il dottore Manganaro ce l’avevo a fianco e mi ha detto: “Dobbiamo portarci via il presidente!”. Gli ho detto: “Sì, però non con questa macchina perché è stata colpita”. Io non so che danni può avere, se hanno colpito la tanica o qualche altra cosa praticamente uno rischia di saltare in aria. Questo è il motivo per cui l’abbiamo tolto da quella macchina». Per l’allora questore di Messina Giuseppe Cucchiara si è trattato di «una scelta derivata dal panico che è subentrato negli operatori: una mancanza di lucidità».

E perché l’auto blindata non provò a superare i massi, come indicato da protocollo? «Non ci ho provato… purtroppo con quella macchina (di esperienza) ne avevo poca…», è la risposta dell’autista, l’agente Sebastano Proto. «Io – aggiunge Santostefano – ho notato che tutte le pietre erano equidistanti tra di loro, di grosse dimensioni e quindi non potevi passarci sopra con la macchina, né tra una pietra e l’altra, e occupavano tutta la carreggiata». 

I DUBBI SULLA DINAMICA DELL’AGGUATO
«Non è plausibile – annota la commissione – che gli attentatori, almeno tre (a giudicare dalle tre marche di sigarette riscontrate sui mozziconi), presumibilmente tutti armati (non v’è traccia nelle cronache di agguati di stampo mafioso a cui partecipino sicari non armati), non aprano il fuoco sui due poliziotti sopraggiunti al momento dell’attentato. Non è plausibile che, sui 35 chilometri di statale a disposizione tra Cesaro e San Fratello, il presunto commando mafioso scelga di organizzare l’attentato proprio a due chilometri dal rifugio della forestale, presidiato anche di notte da personale armato, né è plausibile che gli attentatori non fossero informati su questa circostanza». 

E ancora: «È insolito infine che sull’intera ricostruzione dei fatti permangano versioni dei diretti protagonisti divergenti su più punti dirimenti: gli aggressori erano due o più di due? Sono stati visti mentre facevano fuoco o no? Sono stati visti fuggire nel bosco o no? Sono stati esplosi altri colpi dopo che il presidente Antoci era stato messo in salvo?».

Sia il commissario di Sant’Agata di Militello Daniele Manganaro (il primo ad arrivare sul luogo dell’agguato mentre ancora, sostiene lui, si stava sparando) che il collega che era con lui, Tiziano Granata, riferiscono ai pm di aver visto degli uomini sotto il ciglio della strada. Granata sostiene di aver visto «solo il busto». E che quindi i tre colpi sarebbero stati sparati dal basso verso l’alto. La Scientifica di Roma, però, certifica che a sparare è stato qualcuno, con un fucile semiautomatico, che si trovava sulla strada, dietro la macchina e in posizione obliqua, perché l’ingresso dei fori certifica una traiettoria dall’alto verso il basso. Altro mistero è quello dei bossoli, mai trovati. 

I DUBBI SULL’OPERATO DI MANGANARO E IL RUOLO DI MARIO CERAOLO
La commissione reputa «non comprensibile» il motivo per cui, all’inizio della serata, Manganaro non avvisa gli uomini della scorta di Antoci della sua preoccupazione in merito alla presenza di «vedette mafiose» nel ristorante dove avevano cenato a Cesarò. «Salvo poi – sottolineano i deputati dell’Antimafia – cercare di raggiungerli temendo che potesse accadere qualcosa senza nemmeno tentare di mettersi in contatto telefonico con loro». 

Inoltre, a proposito di questi soggetti sia l’ex sindaco di Cesarò Salvatore Calì, presente a quella cena, sia il maresciallo dei carabinieri del paese hanno teso a sminuire il loro calibro criminale. «Sono tutte persone cha al massimo possono rubare qualche vitello», afferma il maresciallo. L’ex commissario ha risposto di non averlo fatto per «non mettere in agitazione il personale di scorta». «È censurabile – conclude la commissione – il fatto che il dottor Manganaro abbia offerto su alcuni punti versioni diverse da quelle che aveva fornito ai pm in sede di sommarie informazioni». 

Un capitolo a parte viene dato all’audizione di Mario Ceraolo, all’epoca dirigente del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto. È lui il testimone che contribuisce in maniera determinante ad amplificare i dubbi sulle dichiarazioni di Manganaro e del collega Granata, raccontando di conversazioni avute con i due nei giorni successivi all’agguato dai contenuti significativamente diversi rispetto a quelli che Manganaro e Granata danno agli inquirenti. Oggi, inoltre, si scopre che le informazioni acquisite da Ceraolo non sarebbero figlie di un interessamento personale. Ceraolo riferisce alla commissione di aver ricevuto «un incarico informale» dall’allora procuratore di Messina Guido Lo Forte davanti all’ex questore Cucchiara. Circostanza invece smentita da uno dei pm che condusse le indagini, Angelo Cavallo. 

«Non è comprensibile – sottolinea la commissione – la ragione per cui non sia stato disposto dai questori  di Messina e dai pm incaricati dell’indagine un confronto tra i due funzionari di polizia, Manganaro e Ceraolo, che su molti punti rilevanti hanno continuato a contraddirsi e a offrire ricostruzioni opposte». 

I DUBBI SULL’AUTORITÀ GIUDIZIARIA
Le domande della commissione non escludono la magistratura. A cominciare dal fatto che le indagini sull’attentato furono affidate, oltre che alla squadra mobile di Messina, anche al commissariato di Sant’Agata di Militello, cioè al commissariato da cui provenivano quattro diretti protagonisti del fatto. Una delega «per lo meno inusuale», a maggior ragione «di fronte a un attentato ritenuto mafioso con finalità stragista». 

E ancora: «Non si comprende la ragione per cui al gabinetto della polizia scientifica di Roma, tra i vari quesiti sottoposti, non sia stato chiesto di valutare se la Thesis blindata di Antoci avrebbe potuto o meno superare il “blocco” delle pietre poste sulla carreggiata (e soprattutto quanto tempo e quante persone occorressero per posizionare quelle pietre)».

LE MORTI DEI POLIZIOTTI GRANATA E TODARO
Il sovrintendente Calogero Emilio Todaro e l’assistente capo Tiziano Granata, entrambi di stanza al commissariato di Sant’Agata di Militello, muoiono a distanza di un giorno l’uno dall’altro. Granata, l’1 marzo 2018 per arresto cardiocircolatorio. Todaro, l’indomani, a seguito di una leucemia fulminante. Entrambi i poliziotti sono stati coinvolti nei fatti del 18 maggio. Granata era l’autista di Manganaro, Todaro fu tra i primi a intervenire sul luogo del crimine, in qualità di responsabile della sezione di polizia giudiziaria del commissariato di Sant’Agata di Militello. 

A proposito della loro morte (che le autopsie hanno dichiarato essere di causa natruale), la commissione ha sentito Lorena Ricciardello, compagna di Granata, e il commissario Manganaro. Entrambi continuano a nutrire dubbi e sospetti. «La sera (del decesso, ndr) – dice la donna, che racconta di un compagno “nervoso e preoccupato” qualche tempo dopo l’attentato – io telefonavo a Tiziano e nel mio telefono risultava che avevano risposto dall’altro lato, i minuti scorrevano e non c’era nessuna voce. Allora io riattaccai e rifeci questa situazione per altre quattro volte, e per quattro volte mi è stato risposto. Non ho sentito niente dall’altro lato… ero io che poi staccavo, cioè io sono stata anche 25, 30 secondi».

Manganaro invece preferisce non esprimere pareri sulle due morti, ma a proposito del suo successivo trasferimento a Tarquinia, nel Lazio, afferma: «Non ero più lucido nella gestione dell’ufficio, quindi sono andato dal questore. Perché poi cosa successe… venne fatta un’assemblea sindacale al mio ufficio, durante l’assemblea sindacale… emerge che c’erano voci in giro che ci poteva essere un terzo morto entro l’estate… e quindi i ragazzi mi chiamano dopo questa riunione sindacale… “Dottore, c’è molta tensione. Il terzo morto pensano tutti che sia lei”. Io faccio una relazione dettagliata al questore. Ho detto: “Se è vero che deve arrivare un terzo morto perché ci sono intercettazioni in corso, fate quello che volete, ma avvisatemi perché un terzo morto non lo reggerei e se sono io non voglio che la mia famiglia perda una persona. Se, invece, è una calunnia siamo sempre al solito gioco. Qui gli atti da parte di organi investigativi escono e vanno alla stampa o vanno nei bar. Io ‘sta cosa non la posso condividere”. Al questore ho detto: “Veda che io non sono lucido, valuti la mia posizione”. Il questore a distanza di 48 ore mi chiama: “Ti metto a rapporto a Roma e vediamo dove ti puoi spostare per raggiungere la tua serenità”». 

Circostanza che, però, l’allora questore Finocchiaro smentisce: «No, non c’erano ragioni di sicurezza. C’erano ragioni legate al fatto che, insomma, ormai era un bel po’ di tempo che stava a Sant’Agata. Certo, anche questa situazione di continue voci, anonimi… credo che anche lo stesso Manganaro si sia reso conto che forse era il caso di spostarsi e andare via da Sant’Agata».

LE NUOVE INDAGINI
Nelle conclusioni, alla luce dei tanti misteri rimasti, la commissione auspica «che su questa vicenda si torni a indagare (con mezzi certamente ben diversi da quelli di cui dispone questa Commissione) per un debito di verità che va onorato. Qualunque sia la verità. Crediamo – si legge – che questa chiarezza sia dovuta anzitutto a Giuseppe Antoci che da oltre tre anni attende di capire cosa sia davvero accaduto quella sera, con quali intenzioni e per opera di chi».

Salvo Catalano

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