Parlare di mafia senza risultare banali, all’interno di un palco istituzionale come quello della festa de l’Unità di epoca renziana, non è sicuramente un’impresa semplice. Per questo, probabilmente, gli organizzatori della kermesse democratica hanno scelto uno dei cronisti più preparati del settore, Lirio Abbate, per moderare il dibattito che ha visto come protagonista, oltre alla presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Ed è da una citazione del discorso di insediamento del presidente Sergio Mattarella che il giornalista siciliano decide di aprire le danze, indicando nella lotta alla mafia una priorità per l’agire politico della repubblica.
«Un discorso simbolico e importante – spiega Abbate – ma che si scontra con il nostro recente passato. Veniamo infatti da una stagione che ha offerto un rapporto strano tra mafia e antimafia e ha generato anche una finta antimafia di cui abbiamo imparato a conoscere i volti grazie alle inchieste della magistratura e al lavoro dei giornalisti italiani». Neli ultimi mesi i magistrati siciliani hanno iscritto nel registro degli indagati, in diversi inchieste, alcuni noti personaggi: dallo scandalo del tribunale per i beni confiscati, legato alla figura di Silvana Saguto, all’inchiesta sul porto di Augusta in cui è indagato per associazione a delinquere anche il vicepresidente di Confindustria Sicilia, già paladino della lotta alla mafia, Ivan Lo Bello. Passando per l’indagine della Procura di Caltanisstta sul numero uno di Confindustria siciliana, Antonello Montante, indagato per concorso esterno alla mafia.
Si può prevenire la finta antimafia? Chiede Abbate alla Bindi. «Nonostante qualcuno abbia ampiamente ironizzato sul fatto che la commissione parlamentare abbia aperto un’indagine sull’antimafia – risponde la presidente -, voglio sottolineare come sia doveroso che anche quelle forze politiche e sociali che cadono sotto il nome di antimafia riescano a indagare se stesse. Per quanto riguarda Confindustria siciliana – spiega Bindi – che era un punto di riferimento per tutti noi, voglio chiarire come io personalmente continui a pensare che le scelte fatte da Ivan Lo Bello siano state fondamentali». La presidente spiega infatti la difficoltà riscontrata nel lavoro investigativo della commissione nel momento in cui si arriva a un confronto con i rappresentanti di categoria e con i presidenti degli ordini professionali. Che mirano più alla tutela dei propri iscritti, piuttosto che a garantire il rispetto della deontologia a salvaguardia di tutti gli altri cittadini.
«Gli ordini non sono nati per difendere gli iscritti quando sbagliano, eppure è quello che fanno. Quando Lo Bello impostò, al contrario, la politica di voler buttar fuori da Confindustria le aziende in odor di mafia – conclude Bindi – rappresentò sicuramente un passo in avanti culturale, più che politico, che non possiamo dimenticare, nonostante le indagini di oggi». Di trasformazione culturale come arma per sconfiggere le consorterie criminali parla anche il procuratore Franco Roberti che cita uno degli ultimi discorsi del giudice Giovanni Falcone. «Per sconfiggere le mafie abbiamo bisogno di cittadini onesti – afferma dal palco – Bisogna ricostruire un rapporto di fiducia tra italiani e istituzioni, perchè la gente creda nelle istituzioni. E questo è il nostro lavoro, come diceva Falcone, rendere le istituzioni degne della fiducia dei nostri cittadini».
Cittadini impermeabili alle lusinghe della mafia, che riescano a dire no alla mafia imprenditrice. «Al Nord, a differenza che qui nel meridione, sono gli imprenditori a rivolgersi ai boss – spiega Rosy Bindi – è proprio questa attrazione malsana che dobbiamo spezzare». E come esempio indica il presidente del parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, presente tra il pubblico, «che non ha ceduto alle minacce gravissime ricevute – conclude – ed è andato avanti nel suo lavoro in modo onesto».
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