«In Italia per essere credibili bisogna essere morti». Lo diceva il giudice Giovanni Falcone a commento della condizione di isolamento in cui lo Stato lo aveva relegato, malgrado la drammaticità delle sue indagini. Oggi a prendere in prestito quelle parole è Angelo Niceta, membro di una storica famiglia di imprenditori palermitani nel campo dell’abbigliamento. Famiglia dalla quale già il padre Onofrio a fine anni ‘80 decide di tenersi a distanza, perché in disaccordo con la decisione del fratello Mario Niceta, morto nel 2013, di rendersi disponibile a lavorare per conto delle famiglie mafiose dei Guttadauro e dei fratelli Graviano. Il loro patrimonio, del valore di circa 50 milioni di euro, è stato sequestrato nel 2007 proprio per sospette collusioni con la mafia. Angelo, attualmente sotto processo per bancarotta fraudolenta – così come il padre che ha scelto il rito abbreviato – ha deciso di rompere il silenzio e parlare con i magistrati dei segreti legati ai suoi parenti, che lo avrebbero ridotto sul lastrico.
Sono i pm Nino Di Matteo e Pierangelo Padova i primi a raccogliere le sue rivelazioni sugli affari dello zio Mario coi boss di Brancaccio. Ma non risparmia nessuno e tira in ballo anche i tre cugini che hanno ereditato l’impero Niceta, suddiviso in undici società e un patrimonio immobiliare composto da dodici fabbricati e 23 terreni: Olimpia, Massimo e Piero. Questa scelta lo trasforma da persona informata sui fatti a testimone di giustizia, motivo per cui viene anche allontanato da Palermo e trasferito temporaneamente in una località protetta. Fino a quando, però, la Commissione di protezione non cambia il suo status in quello di collaboratore di giustizia. «Il problema è stato proprio questo – spiega a MeridioNews l’avvocato Antonio Ingroia, che in passato ha rappresentato Angelo Niceta – nonostante la stessa Procura di Palermo avesse chiesto di ammetterlo come testimone di giustizia, la Commissione, per ragioni francamente inspiegabili, forse influenzata dal parere dato dalla Procura nazionale antimafia ha ritenuto di trasformare il suo status. Ma il collaboratore di giustizia è qualcuno che ha commesso dei reati e ha fatto parte di un’organizzazione mafiosa, non è il suo caso».
Angelo, a questo punto, decide di rinunciare al programma di protezione che gli sarebbe stato garantito in quanto collaboratore di giustizia: «Un atto di protesta – sottolinea Ingroia – Nell’attesa che venga ripristinato lo status precedente. Cosa che però fino ad oggi non è ancora avvenuta. Lui ha impugnato questa decisione della Commissione davanti al Tar e proprio di questi aspetti vorrei occuparmi io». L’avvocato Ingroia, infatti, che in passato aveva dovuto rinunciare all’incarico per altri impegni, oggi si dice disposto a dare una mano e a fare la sua parte: «So che la sua situazione al momento è difficile, per questo vorrei potermi occupare almeno di quello che riguarda la richiesta di protezione», conclude. Protezione che oggi viene ancora negata e che ha scatenato la reazione di Niceta.
«Da questo momento comunico che io ho iniziato un digiuno totale che proseguirà ad oltranza. Il mio digiuno è la conseguenza dell’isolamento e dell’annientamento sociale ed economico voluto e creato scientemente da questo Stato colluso con la mafia, Stato che ha reso la mia vita e quella dei miei familiari impossibile, Stato opportunista e in malafede che finge di dimenticare quei cittadini che fanno il proprio dovere fino in fondo», ha scritto Angelo nei giorni scorsi sul proprio profilo Facebook. Al post seguono i commenti preoccupati degli utenti della rete, che addirittura creano un evento tramite il social per chiedere protezione per Angelo, sua moglie e i loro quattro figli. «La situazione è gravissima – scrive sempre lui – Sono stanco di subire questa ingiusta, infinita e pretestuosa persecuzione da parte di uno Stato che, invece di essere grato a un cittadino che vuole fare il proprio dovere fino in fondo, lo distrugge, lo elimina socialmente per affamarlo e delegittimarlo».
Lo farebbe, si legge più avanti nello stesso commento, non consentendogli di lavorare e quindi impedendogli di sopravvivere. Per questo Angelo ha deciso smettere del tutto di mangiare «così che con un atto estremo possa rendere pubblico tale loro intento (sembra che a loro le cose pubbliche non piacciano), per fare capire alla gente con il mio sacrificio come si comporta questo Stato/mafia con chi compie il proprio dovere, denunciando la mafia e le collusioni tra la stessa, la borghesia e le istituzioni». La vicenda di Angelo, che il 13 maggio ha anche deposto nell’aula bunker dell’Ucciardone per il processo trattativa, ha sollevato molta solidarietà e non sono pochi gli utenti che attraverso la rete stanno cercando di raccogliere le firme necessarie da presentare alle autorità palermitane per ottenere una tutela. Secondo molti un atto dovuto, visto la decisione di Angelo di denunciare malaffare e collusioni.
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