Che sia stato per il pressing continuo messo in atto dai dipendenti o per la presenza costante e scomoda dei media nel seguire la vicenda, fatto sta che da oggi Almaviva Contact decide di chiudere le sue sedi. Entro 72 ore infatti solo attività da casa in modalità smart working. Una conquista affatto scontata, e che i dipendenti si sono dovuti, in un certo senso, sudare. Ma che ne è di tutti gli altri operatori? Quelli, cioè, impiegati in tutti gli altri call center di Palermo? Almaviva, infatti, non è certo la sola azienda ad operare in città. E per il risultato guadagnato dai suoi 2.800 lavoratori palermitani, resta l’incognita per le sorti di tutti gli altri. Per i quali la politica si sta già mobilitando con diversi appelli. «Continuo a ricevere segnalazioni di lavoratori di alcuni call center che non si sono adeguati, tra questi vi sarebbe anche Abramo Customer Care i cui operatori, in base alle loro stesse segnalazioni, lavorerebbero ancora fianco a fianco – sottolinea ad esempio il deputato Ars Nuccio Di Paola -. Auspichiamo che anche le imprese che non si sono ancora adeguate in maniera ottimale ai decreti del governo, lo facciano immediatamente».
Non solo Almaviva, insomma. Quello dei call center è un mondo in un certo senso sommerso che ingloba tantissimi palermitani. Compresi quelli delle categorie protette. Tra chi porta sulle spalle il peso di varie malattie più o meno invalidanti, qualcuno che di mestiere porta le cuffie e risponde al telefono c’è. E per loro sedersi davanti al proprio computer in ufficio è molto più rischioso che per altri. Malgrado tutte le precauzioni che un’azienda può comunque mettere in pratica. Per alcuni di questi dipendenti che domani dovranno continuare regolarmente a recarsi a lavoro, infatti, la sanificazione dei locali non è stato finora un problema. «Pulivano regolarmente e approfonditamente anche prima. E adesso si continua a farlo. Di nuovo c’è che ci si siede in posti alternati, non si accavallano i turni, i dispenser sono forniti di disinfettante», racconta il dipendente di un call center. Certe aziende, insomma, cercano comunque di mettercela tutta, adottando misure anche drastiche per aumentare l’efficacia delle stesse. Non vanno, insomma, demonizzate. Non sono il capro espiatorio contro cui puntare il dito.
Anche perché qualcuna, a proposito di misure e tutele, da giorni starebbe mettendo in ferie a turno i dipendenti, dovendo continuare di per sé a garantire un servizio classificato come di prima necessità per la tutela dei lavoratori. Mettendo in conto anche alcuni sacrifici, a volerla vedere per un attimo dalla parte proprio delle aziende. Perché mettere in ferie i dipendenti significa doversi accollare un calo drastico della produttività: l’azienda, che viene pagata in base a commesse e obiettivi da parte del committente di turno, non potrà che percepire di meno in questo periodo, avendo meno dipendenti in servizio. Dipendenti al quale garantirà comunque le loro paghe. Non è del tutto vero, insomma, che quelle aziende che stanno mettendo in pratica tutto questo non stiano cercando di fare la loro parte. A modo loro, si intende.
Ma perché fare tutta questa resistenza a una misura come il telelavoro che, in un certo senso, converrebbe anche alle aziende? «Questione di privacy», dicono principalmente i vertici. Chiamando in causa, quindi, i committenti, che in alcuni casi però possono anche essere gli stessi trattati da call center già entrati in modalità smart working. Per non parlare delle banche, soggette anche loro al trattamento di dati sensibili e molto importanti, che hanno già adottato le stesse misure, permettendo ai dipendenti di continuare a lavorare da casa. Perché, quindi, ostinarsi a non tutelare nell’unica maniera davvero efficace i lavoratori? Specie quelli che portano addosso il peso di un’invalidità? «Malgrado tutta la pulizia e le distanze tra noi, stiamo sempre tutti dentro una stessa grande stanza a respirare la stessa aria. Se qualcuno fa uno starnuto non c’è finestra aperta che tenga, anzi è tutto rimesso in circolo», riflette chi domani continuerà ad andare in ufficio. Nell’ipotesi peggiore, al primo positivo dentro a un call center, automaticamente tutti i colleghi dovrebbero andare di conseguenza in quarantena. L’azienda a quel punto potrebbe chiudere i battenti, e senza alcun telelavoratore da casa.
Non sarebbe meglio mettere al primo posto la salute dei dipendenti scongiurando uno scenario che, anche in termini puramente aziendali, potrebbe essere davvero catastrofico? «Anche dentro l’ufficio più igienizzato e asettico del mondo che punta a fare concorrenza a una sala operatoria, un dipendente il virus può sempre portarlo lì dentro da fuori», riflette un altro dipendente ancora, magari prendendolo nel tragitto casa-lavoro. «In un momento tanto delicato per la salute e l’economia del Paese – torna a dire il deputato regionale 5 Stelle Nuccio Di Paola, all’unisono con Giampiero Trizzino e Roberta Schillaci – sappiamo bene quali sono gli sforzi delle imprese per rimanere sul mercato, ma queste non possono far venire meno le condizioni di sicurezza per i propri lavoratori. Purtroppo riceviamo segnalazioni di altri call center, anche presenti sul nostro territorio regionale, che non rispettano il decreto, non chiudono o pare non si siano ancora adeguati. Queste strutture o si adeguano al decreto o chiudono temporaneamente seguendo l’esempio di Almaviva. Sarebbe peraltro paradossale proprio da parte dei call center non poter adottare misure di lavoro agile e smart working».
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