Alla ricerca del cambio perduto – Terza parte: Dalla fine di “Bretton Woods” all’istituzione del “serpente monetario”

La volta scorsa abbiamo visto come a Bretton Woods la proposta di J.M. Keynes di realizzare un istituto di compensazione e una moneta fiduciaria, per superare i problemi derivanti dagli squilibri commerciali negli scambi internazionali, fosse stata sconfitta e come di conseguenza si realizzò in pieno la previsione di Triffin, costringendo nel 1971 il presidente degli Stati Uniti d’America Richard Nixon, incapace di sostenere la convertibilità in oro di tutta la valuta statunitense domandata dall’interno e dall’esterno sostanzialmente ad abolirli.

Nonostante fosse passato un solo anno dalla fine del “gold exchange standard”, il problema di evitare forti oscillazioni dei cambi permaneva e questo spinse gli stati europei più avanti nel processo di integrazione ad iniziare una serie di trattative che portarono alla costituzione di quello che divenne noto come “serpente monetario”. I primi accordi furono siglati il 21 marzo del 1972 e vennero perfezionati appena 20 giorni dopo con l’accordo di Basilea. L’accordo conclusivo del 24 aprile istituì quello che venne chiamato serpente monetario europeo. I paesi aderenti adottarono le bande di oscillazione del 2,25% intorno alle parità delle valute degli stati membri della Comunità economica europea (Francia, Italia, Germania Ovest e i tre paesi del BeNeLux). Inoltre, venne mantenuto un margine del 4,5% tra ciascuna valuta comunitaria e il dollaro. In questo modo sia gli Stati Uniti d’America che la Germania occidentale avrebbero superato gli svantaggi originati dall’incertezza del valore della propria valuta in regime di flessibilità ed evitato il rischio della rivalutazione che avrebbe impattato negativamente sugli scambi intraeuropei. Nell’accordo vennero coinvolte anche Regno Unito, Irlanda, Danimarca e Norvegia.

Per mantenere il valore del cambio all’interno di queste bande di oscillazione, il meccanismo utilizzato fu lo stesso che incontreremo anche successivamente con l’istituzione del Sistema Monetario Europeo nel 1979. In pratica, nel caso di aumenti di domanda (od offerta) di valuta nazionale, la banca centrale di ciascun paese aderente doveva provvedere, per mantenere fisso il cambio, a variare le proprie riserve di valuta estera attraverso operazioni di vendita o acquisto nel mercato valutario.

Il serpente monetario europeo ebbe però vita molto breve. La crisi petrolifera del 1973 causò un forte innalzamento dei prezzi che innescò la fuoriuscita dalla banda di oscillazione valutaria prevista dagli accordi dell’anno precedente. I primi ad uscire furono Regno Unito e Irlanda. L’Italia seguì subito dopo, nel 1973, restandone fuori fino ai successivi accordi del Sistema Monetario Europeo, entrato in vigore 6 anni dopo.

Gli accordi del serpente monetario europeo furono pertanto fallimentari, incapaci di gestire le fluttuazioni valutarie in seguito agli shock esterni, come la crisi petrolifera del 1973.

Eppure, secondo alcuni il serpente monetario rappresentò un esperimento positivo in quanto antesignano delle future attività di integrazione e coordinamento economico dei paesi europei.

Se leggiamo i dati macroeconomici di quegli anni però, vediamo come sia difficile affermare che il serpente monetario fosse stata un’esperienza positiva o negativa. Il decennio in esame infatti fu caratterizzato dall’instabilità economica. Assistemmo a due shock petroliferi (1973 e 1979) in corrispondenza dei quali l’inflazione s’impennò soprattutto in Italia, storicamente povera di risorse energetiche fossili.

Fig.1 Rendimento reale medio dei titoli di Stato e crescita reale in Italia

La figura 1 in alto(1) indica ad esempio che negli anni ’70 la crescita fu molto altalenante con picchi verso il basso in corrispondenza degli shock petroliferi (la figura mostra anche che il rendimento dei titoli di Stato fu inferiore al tasso di crescita, ma questo è un dato che analizzeremo la prossima volta quando parleremo del divorzio della Banca d’Italia e della crescita del costo del debito pubblico degli anni successivi).

Fig.2 Produttività, salario reale e inflazione in Italia

Se ragioniamo combinando il dato sulla crescita della figura 1 e i dati rappresentati dalla figura 2 in alto(1) notiamo che anche con una crescita altalenante i salari reali aumentarono nel decennio in questione superando la produttività.

Le suddette considerazioni ci offrono una visione diversa da quella che per decenni ci hanno rappresentato i sostenitori del “vincolo valutario”. Possiamo quindi trarre alcune parziali conclusioni riguardo al sistema dei cambi fissi. La prima è che un sistema di cambi flessibile (1973-1979) non influì negativamente sulla crescita del prodotto nazionale (figura 1). Inoltre, se guardiamo dal lato della produttività e dei salari pare non sussista un’influenza in senso negativo dei cambi flessibili sulle suddette due grandezze. Di contro, le cause di un aumento pressoché continuo dei salari reali sono da riscontrarsi soprattutto nei rapporti di forza tra le classi sociali. Ricordiamo che con la lotta redistributiva degli anni 70 la classe lavoratrice riuscì ad ottenere soddisfacenti concessioni sul piano economico e della tutela legislativa, anche grazie ad un partito dei lavoratori che arrivò, in alcune elezioni, a punte superiori al 30%.

La prossima volta analizzeremo il periodo del Sistema Monetario Europeo e del divorzio tra Banca d’Italia e governo italiano, e le successive conseguenze sul costo del debito pubblico e sulla classe lavoratrice.

 Note:

(1)Le figura 1 e 2 sono state elaborate con i dati del Fondo Monetario Internazionale e tratte da “Il Tramonto dell’Euro”, di Alberto Bagnai – Imprimatur Editore.

Gli altri articoli del ciclo

Introduzione al ciclo

Prima parte: Dal Gold Standard alla Grande crisi

Marco Palazzotto

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