«Liberazione da qualsiasi forma di oppressione e vincoli mafiosi». Era stato uno degli impegni assunti da Pasquale Perricone nell’autunno 2012, quando, candidato alle elezioni regionali, nella circoscrizione di Trapani, fu il più votato nelle file del Megafono, la lista del futuro governatore Rosario Crocetta. Quasi tremila preferenze che però non gli servirono ad aggiudicarsi uno scranno a palazzo dei Normanni. Luogo per cui era stato disposto anche a dimettersi dalla carica di assessore e vicesindaco di Alcamo, la sua città.
Tre anni e mezzo dopo, Perricone si trova in carcere perché ritenuto vertice di un comitato d’affari che per anni avrebbe operato illecitamente, tra pubblico e privato. Associazione a delinquere secondo gli inquirenti ramificata tra il settore della formazione e quello degli appalti, con profondi agganci nella politica e, soprattutto, in Cosa nostra. La stessa mafia che, a parole, Perricone aveva promesso di voler estromettere dal tessuto socio-economico trapanese.
Leggendo le carte dell’ordinanza Dirty Affairs, che ieri ha portato all’arresto di sette persone, emerge come i rapporti tra Perricone con le cosche abbiano radici lontane. Stando alle parole dell’ex capomafia della città, e oggi collaboratore di giustizia, Giuseppe Ferro, nel 1989 Perricone – che è nipote di Antonio Messana, cognato di Ferro coinvolto nella strage dei Georgofili – si sarebbe presentato a casa del capomafia per cercare protezione, dopo dissidi interni al Psi in occasione delle elezioni comunali. «Perricone viene a cercare me, ha capito? – racconta Ferro ai magistrati nel 2014 -. Quando fanno le elezioni questi hanno questa questione. Allora Perricone si spaventa, quello che penso io, si spaventa di questa cosa…»
In cambio di un occhio di riguardo, Messana assicura che Perricone sarà un imprenditore «a disposizione». Che, nel gergo mafioso, significa che si sarebbe potuto disporre di lui per arrivare all’interno delle pubbliche amministrazioni. A partire proprio dal Comune di Alcamo, dove già nel ’91 Perricone è assessore. «Vedi se gli puoi dare una mano nel lavoro, si fanno i fatti loro, quando hai bisogno lo puoi chiamare, mio nipote è qua a disposizione», avrebbe detto Messana al cognato. La disponibilità di Perricone è confermata da Ferro in un verbale dell’aprile 2014: «Un c’era problema pi lu Comuni con Perricone, tuttu chiddu chi sirvia, se era una cosa fattibile, la faceva senza problema», dichiara il pentito.
Nelle vesti di imprenditore, l’ex vicesindaco di Alcamo avrebbe mantenuto rapporti privilegiati con Cosa nostra, finendo persino per riscuotere le percentuali che le ditte aggiudicatarie degli appalti avevano l’obbligo di versare nella cassa della famiglia mafiosa. Ruolo che Perricone si sarebbe guadagnato negli anni, dopo essere stato tra i primi a rispettare i patti: stando alle dichiarazioni di Ferro, nel 1991 l’imprenditore versò 465 milioni di lire dopo essersi aggiudicato, insieme a un altro gruppo di imprese, i lavori per la costruzione dell’acquedotto locale. Appalti che venivano decisi dalle famiglie mafiose e dei quali Perricone avrebbe beneficiato anche un paio di anni dopo quando, tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, sarebbe riuscito ad accaparrarsi la costruzione di una strada in contrada Crucicchia, sotto il bastione di Alcamo.
Le attività di Perricone sarebbero andate avanti negli anni facendo leva sulla fiducia che la criminalità organizzata avrebbe riposto in lui. E in tal senso, l’arrestato avrebbe conosciuto anche i big di Cosa nostra. Come nel caso di Leoluca Bagarella, che, secondo Ferro, avrebbe vagliato la figura di Perricone per la costituzione del partito che il cognato di Totò Riina nel 1993 pensò di creare. Sono gli anni di Sicilia Libera e della volontà di Cosa nostra di buttarsi letteralmente in politica. Dichiarazioni, quelle del pentito, finite anche nella sentenza della Corte di Appello di Firenze, nell’ambito del processo sulla strage dei Georgofili. «Nel 1993 ci fu un appuntamento o a Partinico o a Palermo – scrivono i giudici – tra Giuseppe Ferro, Matteo Messina Denaro, Gioacchino Calabrò e Leoluca Bagarella. Fu Bagarella che prese il discorso circa la possibilità di dar vita ad un nuovo partito e a chiedere a Ferro se ad Alcamo questi aveva la possibilità di attivarsi in tal senso. Ferro – continuano i giudici – aveva pensato di invitare a una successiva riunione il nipote di sua cognata Tommasa Perricone, la moglie di Messana: si tratta di Pasquale Perricone, persona che ha un’impresa di costruzioni ed era stato nell’89-90 vicesindaco di Alcamo, eletto nel Psi».
Perricone – che secondo gli inquirenti avrebbe mantenuto rapporti con il clan dei Melodia, impegnandosi presso l’amministrazione comunale affinché venissero ascoltate le richieste della moglie di un personaggio legato alla famiglia, che voleva essere spostata d’ufficio per evitare le mansioni di pulizia – si sarebbe vantato delle proprie frequentazioni anche con la compagna Marianna Cottone (anche lei arrestata ieri, ndr). In una conversazione del novembre 2014, intercettata all’interno di un’auto di sua proprietà, l’imprenditore che a parole voleva combattere la mafia diceva: «Io ho conosciuto il gotha. Bagarella ho incontrato. L’ho visto a Palermo, in un ristorante lungo viale Regione Siciliana. Quando ho capito chi era mi sono detto “Porca…”».
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