Al Sud solo un quarto degli investimenti pubblici «Con più risorse, in salvo 300mila posti di lavoro»

L’Italia può ripartire grazie agli investimenti. E il discorso vale, in misura esponenziale, anche per il Sud. È un mantra ripetuto infinite volte negli ultimi anni da politici, sindacati, forze sociali. Ma quante risorse pubbliche ha davvero investito lo Stato nell’ultimo anno per dare forza alla ripresa? E in percentuale, quanta parte di questi investimenti, è stata indirizzata al Meridione? I conti li ha fatti la Svimez, l’Agenzia per lo Sviluppo del Mezzogiorno. E testimoniano come nel 2016 ci sia stato un brusco calo degli investimenti pubblici, soprattutto al Sud. Nel complesso la pubblica amministrazione ha speso in investimenti 35,2 miliardi di euro (il 2,2 per cento del Pil nazionale), cioè tre miliardi in meno rispetto al 2015 e in picchiata rispetto agli anni precedenti (si pensi che nel 2008 se ne spendeva quasi il doppio, 61,6 miliardi). E a essere penalizzato è soprattutto il Meridione, cioè le regioni che invece avrebbero bisogno di maggiori investimenti per colmare il gap con il resto d’Italia. A questo si aggiunge l’impegno delle principali aziende pubbliche del Paese, che Svimez definisce nel 2015 «scandalosamente basso». Prima tra tutte Ferrovie che ha localizzato a Sud solo il 19 per cento dei suoi investimenti, nonostante l’annunciata cura del ferro del governo nazionale. 

«Ora – analizzano gli economisti – che vi fosse un rallentamento nel 2016, primo anno di avvio della spesa del nuovo ciclo di Fondi strutturali e di lenta definizione dei Masterplan, oltre che di implementazione del nuovo Codice degli Appalti, era tutto sommato prevedibile». Ma a preoccupare sono le lacune strutturali: «Non soltanto un problema di spazi finanziari ma una perdita, ad ogni livello di governo, di capacità progettuale e realizzativa per gli investimenti pubblici, in parte dovuta a una macchina pubblica in cui l’età media delle risorse umane è sempre più alta e dove scarseggiano le competenze tecniche necessarie». Fattori a cui si aggiunge «la corruzione endemica che – continua il rapporto Svimez – sembra avere come effetto indiretto la tendenza a declinare l’assunzione di responsabilità da parte di molte amministrazioni nell’avvio degli appalti pubblici».

Tornando ai numeri, dentro la torta da 35,2 miliardi di euro di investimenti del 2016, 27 miliardi sono le risorse ordinarie (cioè quelle strutturali e non occasionali previste nel bilancio dello Stato), 7,7 sono quelle aggiuntive (in gran parte i famosi fondi europei). Quanti di questi soldi sono stati investiti nelle regioni del Mezzogiorno? Cinque miliardi (cioè il 71 per cento) delle risorse aggiuntive e sette miliardi e mezzo (cioè il 27 per cento) di quelle ordinarie. «Questo dimostra ancora una volta che le risorse europee sono state una sostituzione e non un’aggiunta – spiega Maurizio Caserta, docente di Economia all’Università di Catania -. È chiaro che oltre il 70 per cento dei fondi comunitari venga speso al Sud perché la gran parte di quelle misure sono indirizzate soltanto alle Regioni meno sviluppate». 

Una soluzione, secondo la Svimez, ruota attorno a un numero: il 34. Nelle Regioni del Sud vive il 34 per cento della popolazione nazionale (anche se nei prossimi 50 anni si prevede una perdita di cinque milioni di persone). Di conseguenza, a detta degli economisti, il minimo che lo Stato e le grandi società pubbliche dovrebbero fare è investire il 34 per cento degli investimenti nel Mezzogiorno. Questo principio, ribattezzato «clausola del 34 per cento», è stato inserito dal governo Gentiloni nel cosiddetto decreto Mezzogiorno, in discussione in Parlamento. 

Secondo i calcoli di Svimez, se questa equa distribuzione di risorse fosse stata applicata già durante gli anni della crisi, «la grande recessione non sarebbe stata una grande recessione. Se tra il 2009 e il 2015 fosse stata attivata la clausola del 34%, il Pil del Sud avrebbe praticamente dimezzato la perdita accusata, che sarebbe stata pari al -5,4% mentre il calo effettivo è stato del -10,7%. Analoghi effetti – continua l’Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno – si sarebbero avuti per l’occupazione, in quanto la diminuzione sarebbe stata pari a -2,8% invece del -6,8% registrato: ciò significa che si sarebbero persi non mezzo milione di posti di lavoro, ma circa 200mila, salvandone di fatto 300mila».

Salvo Catalano

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