Al Palaspedini ancora oltre 200 migranti Ma la maggior parte dei catanesi non lo sa

Palestina, Siria, Norvegia. Tre nazioni riunite in un solo luogo, piazza Spedini, affollato di sabato, il giorno del mercato. Ma i catanesi non lo sanno. È il paradosso che in questi giorni vive il quartiere Cibali di Catania dove sono ospitati i migranti siriani – o palestinesi in fuga dai campi per rifugiati in Siria – sbarcati nel capoluogo etneo lo scorso martedì. Detenuti illegalmente nella struttura sportiva Palaspedini, secondo la rete antirazzista catanese e alcuni giuristi. Una reclusione di fatto che dura da giorni per più di 200 persone e che risponde al rifiuto dei migranti di farsi identificare: se lo facessero, sarebbero costretti a richiedere l’asilo in Italia. Paese che loro vogliono presto lasciare, per ricongiungersi ai familiari già stabiliti nel Nord Europa. «Lì hanno le possibilità economiche per vivere bene e insieme ai propri parenti», spiega Valeria Castorina, attivista che è riuscita a parlare al telefono con uno dei migranti all’interno della struttura.

Uno degli undici familiari di un giovane siriano che aspetta da giorni fuori dal Palaspedini. «Dentro ci sono mio padre,  i miei fratelli, le mie sorelle e i miei nipoti – racconta – Non tutti stanno bene, ma li ho visti solo una volta per dieci minuti». Stessa situazione di un altro signore venuto in viaggio dalla Norvegia, insieme a un amico, «per portarli a casa con noi». Un ricongiungimento familiare impossibile senza l’identificazione. E, in quel caso, da rimandare di almeno un anno. «Ma io sono d’accordo, non deve farsi identificare qui. Altrimenti dovrà restare in Italia». L’unica soluzione è la fuga, come quella di diversi siriani sbarcati nelle scorse settimane e scappati dal Palacannizzaro.

«Il giovane palestinese con cui ho parlato mi ha raccontato che dentro hanno poco meno dell’indispensabile. Dormono per terra o sugli spalti e l’aria è irrespirabile – continua Castorina – I bambini, tanti e alcuni molto piccoli, hanno freddo la notte e caldo di giorno». Davanti alle porte semiaperte del Palaspedini c’è la ressa. In tanti prendono in braccio e portano in alto i propri figli per renderli visibili al di là del cordone di polizia, carabinieri e guardia di finanza. I più grandi mimano la prigionia, con i polsi incrociati. Uno sforzo non sempre ripagato con l’attenzione cercata.

Pochi metri più in là, oltre le camionette delle forze dell’ordine, la vita cittadina continua indisturbata. Il mercato rionale si svolge come ogni sabato mattina. «Io non ne sapevo niente», rispondono diversi tra ambulanti e clienti. Increduli alcuni, indifferenti molti. La scoperta non cambia la loro attività mattutina: «Ppi mia hanu vogghia ri stari», si affretta a dire un venditore di frutta e verdura. «Io credo che sia una cosa sbagliata – risponde un giovane, tra i pochi informati – Sono controllati a vista dalla polizia e invece dovrebbero essere liberi. Siamo cittadini del mondo». Di compassione parla una signora del quartiere che, tra un sacchetto della spesa e l’altro, riesce a entrare al Palaspedini per portare ai migranti vestiti e altri generi di prima necessità. All’uscita racconta di «condizioni accettabili», ma che non frenano la signora. «Tornerò – promette – Con la tristezza nel cuore, ma tornerò».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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