Agrigento, Ignazio Cutrò chiude la sua azienda Il testimone di giustizia: «Oggi la mafia ha vinto»

«Andrò a mangiare alla Caritas: così hanno ridotto un uomo che ha detto no alla mafia». Un lungo silenzio accompagna l’unica frase che Ignazio Cutrò riesce a proferire. Il testimone di giustizia di Bivona, il primo che abbia scelto di restare nel territorio nel quale ha denunciato Cosa nostra, ha dichiarato chiusa la sua azienda edile. «Oggi la mafia ha vinto», commenta laconico. L’imprenditore agrigentino dal 1999 ha iniziato a subire una serie di intimidazioni di stampo mafioso. Dopo qualche tempo ha deciso di iniziare il percorso di collaborazione con lo Stato, permettendo l’arresto e la successiva condanna di cinque persone accusate di estorsione. Ma da quel momento iniziano molti problemi, soprattutto legati a cartelle esattoriali per le quali dovrebbe godere di sospensioni, ma anche a questioni di sicurezza personale

Nonostante le difficoltà, a febbraio 2014 riesce, grazie ai propri sforzi, a ridurre l’importo da pagare a ventimila euro. Cifra che aveva chiesto in sovvenzione o attraverso prestiti. «Se non avessi pagato, non avrei avuto il Durc (il documento unico di regolarità contributiva, ndr). Ma a me non tocca mai niente, perché quando ho fatto questa scelta sono rimasto penalizzato – commenta con amarezza – Mi avevano fatto delle promesse». Nel frattempo le rate da pagare alla Serit aumentano e a dicembre 2014 arrivano alla cifra di 38mila euro. «Hanno liquidato direttamente alla Serit 20mila euro, ma mancavano 18mila euro per chiudere tutto. Bastavano 18mila euro per salvare me, la mia famiglia e un’azienda che ha lottato contro Cosa nostra».

Questa è un’antimafia fatta di comunicati stampa, piccoli convegni, pacche sulle spalle. È un brutto segnale per il Paese 

Tra incontri, tavoli ufficiali, promesse («anche del prefetto di Agrigento»), «da solo con le mie gambe ero riuscito a ottenere un contratto da tremila euro al giorno». Un subappalto che avrebbe permesso all’imprenditore agrigentino di rimettersi sul mercato. «Ma fra i documenti chiesti, c’era il Durc. Ho provato anche a vendere dei mezzi, ma nessuno li ha voluti comprare. Quel lavoro ho dovuto rifiutarlo». Da qui la decisione peggiore, quella definitiva. «Ho capito che nessuno mi avrebbe aiutato. Oggi la mafia ha vinto», ripete. 

Eppure una legge regionale che prevede anche l’assunzione dei testimoni di giustizia nel settore pubblico è già pronta, «ma per cavilli burocratici dal Viminale è bloccata». Ed è proprio a Roma, nella commissione centrale per la protezione dei testimoni di giustizia, che Ignazio Cutrò identifica la fonte di molti dei problemi. All’imprenditore agrigentino fa eco Giuseppe Carini, testimone-chiave nel processo per l’omicidio di don Pino Puglisi. «Le difficoltà non vengono qui, dalle istituzioni locali, ma dalle continue bizze dal Viminale, dalla commissione centrale e dal viceministro Filippo Bubbico», che presiede l’organizzazione. «Tutto il ministero degli Interni ha responsabilità piena – afferma Carini – Siamo amareggiati. La vera battaglia era sostenere l’azienda nel territorio». 

«Ogni altra parola sulla lotta alla mafia è vuota. Questa è un’antimafia fatta di comunicati stampa, piccoli convegni, pacche sulle spalle. È un brutto segnale per il Paese – sottolinea Giuseppe Carini – La pazienza che ha dimostrato Ignazio Cutrò merita una risposta. Al viceministro Bubbico chiederei se provano un minimo di vergogna». Dal Viminale non trapela nessuna parola. I palazzi sono svuotati a causa delle elezioni del presidente della Repubblica. «Abbiamo saputo la notizia. Il viceministro non ha commenti da fare», è la risposta netta che arriva.  

«Un giorno, durante un incontro, mi hanno detto che non lavorerò mai perché nel mio territorio la mafia è troppo potente. Mi hanno detto di andare via», racconta Cutrò. Chi sia l’autore del consiglio non vuole specificarlo. «Se mi chiama un magistrato, glielo dico», assicura. «In questi anni sono stato un incosciente? Un pazzo? Lo rifarei altre mille volte – precisa – ma prenderei la mia famiglia e andrei via. Perché questo Paese non mi ha voluto. Denunciate, è questo l’appello che faccio, ma andate via».

Carmen Valisano

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