È stata esaminata ieri dal giudice per le indagini preliminari Giovanni Cariola la richiesta di rinvio a giudizio, avanzata dal sostituto procuratore Andrea Bonomo, per i soggetti che sarebbero legati al clan Santangelo-Taccuni, arrestati lo scorso 30 gennaio dalla polizia nell’ambito dell’operazione Adranos. Vennero eseguiti in quell’occasione 33 ordini di cattura, smantellando di fatto l’organizzazione criminale adranita collegata ai santapaoliani di Catania. Tra gli imputati oltre, al boss Alfio Santangelo, anche Nicola Mancuso (che già sta scontando una condanna per droga) cioè l’uomo accusato di essere uno degli autori dell’omicidio di Valentina Salamone, la ragazza trovata impiccata in una villetta di Adrano nel 2010.
La maggior parte delle persone alla sbarra avrebbe optato per essere giudicata con rito abbreviato: ogni decisione in merito sarà presa dal gup il prossimo 18 luglio. Alfredo Pinzone avrebbe invece optato per quello ordinario mentre avrebbero scelto il patteggiamento due degli imputati, Luigi Leocata e Salvatore Piccolo; la loro posizione sarà esaminata il prossimo 13 luglio dal gup Giancarlo Cascino. Nel corso dell’udienza sono state stralciate le posizioni di quattro imputati, Antonino Bulla, Antonino La Mela, Giuseppe La Mela e Nicolò Rosano, che essendo collegati in video conferenza non hanno potuto assistere al dibattimento per un improvviso mancato collegamento. La loro posizione sarà valutata dal gup il prossimo 11 luglio; anche i quattro imputati avrebbero avanzato la richiesta di essere giudicati con rito abbreviato.
Le indagini partite dall’operazione Adranos sono durate due anni: dal settembre 2014 a quello del 2016 le intercettazioni telefoniche e ambientali sono servite, per gli inquirenti, a ricostruire l’organigramma della cosca Santangelo-Taccuni. Nel 2015 gli arresti di Antonino Quaceci e Nino Crimi avrebbero costretto il clan – storicamente diretto dal capomafia Alfio Santagelo – a riorganizzarsi: il controllo delle attività sul territorio sarebbe passato a Gianni Santangelo e Salvatore Crimi. Sarebbero stati questi ultimi a trarre i primi frutti dell’accordo con gli avversari di sempre: il clan Scalisi, vicini alla famiglia mafiosa dei Laudani. Il patto sarebbe stato semplice: il mercato ortofrutticolo sarebbe stato gestito da entrambe le famiglie, così come il pizzo agli imprenditori del settore e a quelli attivi nel commercio all’ingrosso delle carni. E poi le estorsioni a imprese adranite e rapine e furti, anche alle banche.
Nell’inchiesta c’è poi un intero capitolo che si svolge a Santa Maria di Licodia. Era il 23 gennaio del 2015 quando Nicolò Trovato, Francesco Rosano e Maurizio Pignataro, su ordine di Nino Crimi, sarebbero andati all’interno dell’abitazione di una donna. Il compagno di lei sarebbe stato colpito ripetutamente alla testa con il calcio di una pistola finché la proprietaria di casa, che assisteva alla scena insieme alla madre – entrambe sotto minacce -, non ha rivelato il luogo in cui si trovava la cassaforte: dentro c’erano 480mila euro. Nella notte del 25 dicembre dello stesso anno, Trovato e Pignataro avrebbero poi tentato un altro colpo da migliaia di euro: stavolta ai danni della filiale del Banco popolare siciliano. Assieme a due complici avrebbero prima bloccato le strade nei pressi della banca e poi avrebbero usato un escavatore per scardinare il bancomat. La refurtiva sarebbe stata di 75mila euro, se non fossero stati arrestati in flagranza.
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