Addio a Filippo Salamone, ‘re’ degli appalti pubblici nella Sicilia degli anni ‘80

La memoria ritorna a un articolo del Sole 24 Ore. Quel giorno – forse nella primavera del 1989, o forse nel 1990 – il quotidiano della Confindustria pubblicava la ‘classifica’, se così si può dire, dei più importanti gruppi imprenditoriali della Sicilia di quegli anni. La sorpresa era negli occhi di tutti: l’Impresem di Filippo Salamone era al primo posto. Allora i ‘mitici’, o ‘famigerati’ cavalieri del Lavoro di Catania – i vari Costanzo, Rendo, Graci, Finocchiaro, Parasiliti, Puglisi Cosentino – erano già entrati in crisi, colpiti, in alcuni casi, da vicende giudiziarie. A Palermo il gruppo Cassina segnava il passo, ostacolato in tutto e per tutto dalla ‘Primavera’ di Leoluca Orlando. Nessuno, però, immaginava che il gruppo agrigentino fosse diventato così forte.
Oggi, a distanza di oltre vent’anni, i ricordi sbiadiscono. La morte di Filippo Salamone, avvenuta ieri, rientra in quel grande e imperscrutabile gioco che è la vita di ogni uomo. Travolto da una serie di infarti, Salamone, dopo lunghe e sofferte vicende giudiziarie, era finito nella propria casa. La Giustizia, che anche in Italia, ogni tanto, riesce ad essere magnanima, aveva concesso all’imprenditore i benefici della detenzione domiciliare.
E’ stato un personaggio, Filippo Salamone. Nel bene e nel male, un grosso personaggio. Venuto su – questo va detto per inciso – dal nulla. Un uomo, un imprenditore che si è fatto da sé. Magari senza andare molto per il sottile.
Partito da Aragona, piccolo centro alle porte di Agrigento, entrato nell’edilizia per caso o per fortuna, deve fare i conti, come si dice in questi casi, con la gavetta. La sua fortuna si chiama Salvatore Sciangula, il democristiano di Porto Empedocle, cognato del parlamentare nazionale della Dc, Giuseppe Sinesio. Sciangula, nel 1986, viene catapultato sulla plancia di comando dell’assessorato regionale ai Lavori pubblici. Ed è proprio accanto all’assessore che Salamone costruirà il suo impero economico.
Allora il bilancio della Regione siciliana era florido. C’erano tanti soldi. Che venivano spesi per la realizzazione di grandi opere pubbliche (che, in alcuni casi, o venivano lasciate a metà, o venivano abbandonate). Non solo. Il 1986 è l’anno della legge per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno: la legge nazionale n. 64. Per il Sud è una rivoluzione. Dalla vecchia Cassa per il Mezzogiorno che ‘calava’ dall’alto i progetti – che spesso non avevano né capo né coda e, in molti casi, erano avulsi dal contesto economico e sociale in cui venivano inseriti d’ufficio – si passava alla programmazione e alla gestione dal ‘basso’. Sarebbero state le Regioni del Sud a programmare e a gestire i 120 mila miliardi di vecchie lire: a tanto ammontava lo stanziamento di questa legge. Il tutto con il coordinamento dell’Agenzia per il Mezzogiorno e del Dipartimento, che avevano preso il posto della vecchia Cassa per il Mezzogiorno.
Su questo punto si apre uno scontro politico (e non soltanto politico). Ai grandi gruppi economici del Nord, che nel Sud d’Italia, fino ad allora, con la Cassa per il Mezzogiorno avevano fatto il bello e il cattivo tempo, l’idea che questo grande flusso di denaro pubblico venisse controllato direttamente dalle Regioni del Sud, che diventavano protagoniste del proprio sviluppo, non andava giù. Nel bel mezzo di questa dialettica, che ben presto diventerà uno scontro, si posiziona la mafia, pronta a lucrare ora sui gruppi siciliani, ora sui gruppi nazionali.
Questo, grosso modo, è lo scenario in cui si trova ad operare Filippo Salamone. Che, nel 1986, ha già all’attivo un’esperienza, sempre da imprenditore edile, nella discussa realizzazione degli hotel della Sitas di Sciacca. Con Sciangula assessore ai Lavori pubblici, però, il gioco diventa grande. Forse troppo grande. In quegli anni Sciangula ha già ‘divorziato’ dal cognato, esponente storico della Cisl siciliana – e quindi della sinistra Dc di Forze nuove – per passare, armi e bagagli, con gli andreottiani di Salvo Lima.
A questa rottura, in realtà, non erano in molti a credere. I maligni sostenevano che, con il passaggio tra gli andreottiani, Sciangula, abilissimo a districarsi tra i ‘flutti’ delle correnti democristiane, era riuscito a declinare ciò che allora sembrava politicamente ‘indeclinabile’. Era riuscito, da neo-andreottiano, ad acciuffare il più importante (e più ricco) assessorato con un presidente della Regione – Rino Nicolosi – della sinistra democristiana (corrente Dc in quegli anni maggioritaria in Sicilia e spesso in antitesi con Lima). Era riuscito a garantire la sinistra Dc e gli andreottiani, non scontentando le altre correnti del suo partito. Tenendo, contemporaneamente, buoni rapporti con il Psi, con il Psdi, con il Pri e con il Pli. Politicamente, un mago.
E’ chiaro che un politico così abile, chiamato a gestire migliaia di miliardi di vecchie lire, doveva mettersi accanto qualcuno che, in materia di appalti pubblici, doveva essere, nel suo settore, almeno bravo quanto Sciangula lo era in politica. E sarà questo il ruolo di Filippo Salamone che, nella complicata, se non impossibile, legislazione dei lavori pubblici regionale di quegli anni, era uno dei pochi che non perdeva mai il filo. Facendo anche – ovviamente – gli interessi del suo gruppo, l’Impresem.
Di Salamone è stato detto tutto è il contrario di tutto. Che decideva a chi affidare gli appalti. Che si incontrava con i mafiosi. Che era il grande organizzatore di ‘tavoli’ e ‘tavolini’. Che era il simbolo di un’imprenditoria rapace, interessata più alla gestione che alla realizzazione di grandi opere pubbliche. E’ fuor di dubbio che in quegli anni – gli anni del completamento delle grandi dighe che, di fatto, nonostante le centinaia di miliardi di vecchie lire spese, non venivano mai completate, vere e proprie tele di Penelope ‘appaltizie’ – gli sprechi di denaro pubblico erano all’ordine del giorno.
Agli ‘annali’ resta una considerazione dell’allora parlamentare dell’Ars, Franco Piro, che, commentando il continuo ricorso alla “somma urgenza” per l’assegnazione di lavori pubblici che, nella migliore delle ipotesi, sarebbero state completate nei decenni successivi (quando, ovviamente, non sono state lasciate a metà), disse che la vera urgenza era quella di gestire l’enorme flusso di denaro pubblico e non certo quello di realizzare le opere.
In realtà, alla spartizione degli appalti pubblici partecipavano tutti, mafia compresa. Un’onorata società che si limitava o a ‘mettere a posto’ i cantieri riscuotendo il ‘pizzo’ (in fondo, quello che fa ancora oggi), o a gestire i subappalti con proprie imprese.
Bisognava trovare, insomma, il ‘giusto equilibrio’ tra gruppi nazionali – che alle ‘logiche siciliane’ non sono mai rimasti estranei – gruppi isolani e, naturalmente, la mafia.
Nella seconda metà degli anni ‘90 ho intervistato, per l’inchiesta Sicilia, l’allora capogruppo del Pci (e poi del Pds) all’Ars, Gianni Parisi. Che mi ha raccontato di un suo compagno di partito che, alla fine degli anni ‘80, gli organizzò un incontro con Filippo Salamone. In quegli anni Parisi era uno dei pochi politici che, spesso, attaccava Salamone. Che, a un certo punto, volle parlare con lui.
Parisi mi ha raccontato che per oltre un mese declinò l’invito. Poi, pressato, decise di incontrare Salamone nella sede del gruppo parlamentare all’Ars. Parisi non è un tipo che ama i giri di parole. Per sua natura, va subito al dunque. L’incontro fu molto brusco. Salomone, che aveva una sua logica, spiegò a Parisi che qualcuno doveva comunque prendersi la briga di trovare una ‘sintesi’ tra tanti pretendenti, mafia compresa. Sennò, lasciò capire, sarebbe finita a “pistolettate”. Parisi gli rispose che questo “qualcuno” non doveva certo essere lui né altri soggetti: la sintesi, obiettò, doveva deciderla il mercato. Risposta che, ovviamente, non deve aver convinto molto Salamone.
Forse la parabola discendente di Salamone comincia con la palma di primo in classifica assegnatagni dal Sole 24 Ore. Forse il suo destino – come quello di altri grandi imprenditori siciliani – era già scritto nei 120 mila miliardi di vecchie lire stanziati per il Sud che i grandi gruppi del Nord volevano gestire – e in parte gestiranno – non certo per fare gli interessi del Sud.
Nei primi anni ‘90, quando esplode Tangentopoli – che in Sicilia prenderà il nome di Mafiopoli, visto che i pubblici appalti si celebravano solo con la presenza di quel convitato di pietra che si chiama mafia – anche Filippo Salamone e il suo gruppo, l’Impresem, finiscono nell’occhio del ciclone. Disavventure che sfiorano appena suo fratello Fabio, apprezzato magistrato, che chiederà e otterrà il trasferimento a Brescia.
Poi il lungo silenzio. Concluso ieri a quasi settantanni (li avrebbe compiti nel marzo del prossimo anno). Con il passaggio a miglior vita – come avviene spesso in questi casi – Filippo Salamone si porta nella tomba i mille segreti imprenditoriali, giudiziari, ma anche politici, di una lunga e tormentata stagione.

 

 

Giulio Ambrosetti

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