«Ho smesso di essere di colpo bambina la notte del 21 dicembre del 1946. Avevano sparato a mio padre, Nicolò Azoti, sindacalista della Cgil colpevole di essersi schierato dalla parte dei contadini. Aspettavo con ansia per natale un cappottino rosso. Quella notte i colori sono spariti dalla nostra vita. Neri i nostri vestiti, nero il fiocco ai miei capelli, nero il cappottino tinto in fretta per vestirmi a lutto, a 4 anni. I sindacalisti uccisi dalla mafia sono stati oltre 40, mio padre è stato uno dei primi a chiedere l’attuazione della riforma agraria per l’assegnazione delle terre incolte. Poi l’oblio, l’oltraggio alla memoria, e lì lo hanno ucciso per la seconda volta». A parlare, con estrema dignità e lucida sofferenza, è Antonella Azoti, maestra in pensione e autrice di Ad alta voce, il riscatto della memoria in terra di mafia, Terre di mezzo editore.
Il libro, che ha vinto il premio indetto dall’archivio diaristico nazionale di Pieve santo Stefano, è stato presentato in una nuova edizione alla Bottega di Libera, a Palermo, alla presenza, tra gli altri, del professore Carlo Marino, del coordinatore provinciale di Libera Giovanni Pagano, del segretario Cgil Palermo Enzo Campo, e di quello regionale, Mimma Argurio. «Questa è la storia di un riconquistato diritto alla memoria», scrive don Ciotti nella prefazione, «uomini come Azoti hanno combattuto a mani nude il potere mafioso» ha detto Marino durante la presentazione.
«In un ambiente in cui quell’omicidio dimostrativo aveva procurato terrore e disorientamento – racconta Antonella -, inducendo con violenza ogni componente della comunità locale a farsi i fatti propri, nessuno osava giudicare l’operato della mafia e nessuno commentava a voce alta quell’assassinio. Per anni, di nascosto, ho cercato mio padre nel lenzuolo che ha raccolto il suo sangue, gelosamente custodito da mia madre era la nostra personale sindone, il segno di un dolore rimasto per decenni privato, un lutto confinato nei crudeli modi di dire siciliani che hanno continuato a umiliare mio padre, un combattente. Cose di mafia, diceva la gente, omologandoci, a prescindere dal ruolo occupato. Ho cercato a lungo il coraggio di gridare ad alta voce il nostro dolore, a nome anche degli altri uomini integerrimi diventati invece alticci, rissosi e intrallazzisti per un’opinione pubblica e per uno Stato colluso e omertoso che si è consolato calunniandoli».
Il coraggio di gridare Antonella lo trova inaspettatamente, ai piedi dell’albero Falcone, nel giugno del 1992, quando il valore della memoria si incrocia con la rabbia per quel nome sconosciuto ai più, Nicolò Azoti. Antonella è tra gli attivisti del comitato dei lenzuoli, raggiunge il microfono, racconta di una mafia assassina e di un’umiliazione subita per troppo tempo, dimentica la proverbiale timidezza, descrive una storia di resistenza sconosciuta agli stessi siciliani e accaduta a due passi da Palermo. Poi la scelta di scrivere un libro, meditata a lungo: «Neanche i miei familiari conoscevano nei dettagli la storia, temevo di urtare la loro sensibilità, ma ho scritto per quella bambina che la sera del 21 dicembre aspettava suo padre per natale. Grazie a quelle pagine sofferte ci siamo incontrate, consolate e riconciliate».
Antonella a soli 4 anni avverte il fastidio di una compassione ipocrita, mentre capisce i gesti di dignità della madre che a 31 anni si ritrova sola con due bimbi da crescere e una scelta difficile: trovare i mezzi per garantire loro un’istruzione che li renda liberi dagli stenti e dai pregiudizi. Ed è in quelle pagine di coraggio e determinazione silenziosi che Ad alta voce diventa anche il racconto di un piccolo mondo antico siciliano: «Le mie scarpe diventavano estive dopo aver tagliato punta e tallone perché i miei piedi crescevano e io non ero mai coperta a sufficienza nella giornata più rigide – racconta Antonella -. Scrivere è stato un atto di coraggio, volevo che al lettore arrivassero le sofferenze ma anche la speranza. Abbiamo tutti sentito come nostri morti Falcone e Borsellino, abbiamo il dovere di ricordare altre storie che non possono restare private, perché sono la nostra storia».
Un patrimonio colpevolmente dimenticato, come ha detto Saverio Piccione, segretario di organizzazione regionale Cgil: «C’è stato un problema di rimozione da parte della storia ufficiale». Sulla stessa linea Giovanni Pagano: «Solo storici contemporanei attenti hanno permesso che vicende come queste diventassero patrimonio diffuso. Da qui nascono i nostri anticorpi nella lotta alla mafia».
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