Abu Florence, per cinque anni schiava sessuale a Mosca 50mila dollari il prezzo della libertà. «Nessuna è immune»

«Tu non puoi rifiutare. Altrimenti ti uccido e butto il tuo corpo da qualche parte». Quando, tra mille peripezie, Abu Florence è arrivata dalla Nigeria alla grande e fredda Russia, pensa di essersi lasciata fatiche e atrocità ormai alle spalle. Non ha nemmeno vent’anni e pensa davvero di poter ricominciare da zero, lontana da miserie e violenze. Ma quella frase cambia il suo destino. A pronunciarla è il pastore della chiesa che ha preso a frequentare, appena arrivata a Mosca. Non sa ancora che in quella città ci resterà per cinque anni come schiava sessuale. «Appena arrivata, nessuno mi ha detto cosa avessi dovuto fare. Questo pastore è subito entrato in contatto con me, mi ha portato nella sua chiesa, dove ho ballato e cantato nel coro», racconta oggi la ragazza. Quello che sembra un salvatore che le tende la mano per ricominciare si trasforma quasi subito nel suo peggiore incubo.

La sceneggiata, infatti, dura poco. E in breve nella vita di Abu Florence ecco spuntare anche la madame, la sua padrona. È la sorella del pastore. Appena le due si incontrano, la madame sequestra il passaporto della ragazza. È il primo meccanismo per legarla a sé: «Ora che sei qui con me non puoi più uscire, io tengo il tuo passaporto. Non potrai muoverti finché non pagherai 50mila euro». A tanto ammonta il prezzo della sua libertà. È il 2013. Da quel primo incontro con la madame passano cinque anni, di cui porta impressi nella memoria ogni singolo terribile giorno. «Ci sono stati tanti momenti… – racconta oggi -. Una volta i trafficanti mi hanno presa e lanciata dal terzo piano. Per due mesi sono dovuta rimanere chiusa in casa senza potermi muovere, senza poter fare niente». Minacce e violenze sono all’ordine del giorno. «Dirò ai tuoi genitori che non ti ho neanche mai vista qui», è una delle tante frasi che la ragazza si sente dire, soggiogata dalla paura di sparire nel nulla, senza lasciare alcuna traccia.

Quella vita finisce nel 2018, solo dopo che è riuscita a saldare quel debito fino all’ultimo centesimo quel debito che le è stato assegnato. Ci sono voluti cinque anni, ad Abu Florence, per mettere insieme l’intero riscatto. «Ero di nuovo libera, la mia vita non era più nelle mani di un’altra persona e avevo di nuovo il mio passaporto. Ma comunque non avevo i soldi per fare nulla, non potevo pagare un affitto, non potevo nemmeno comprare qualcosa da mangiare – dice -. Perciò sono andata all’ambasciata, ho finalmente ricevuto aiuto vero e subito dopo sono tornata in Nigeria». Finalmente è di nuovo a casa. Anche se ricominciare da capo non si rivela per niente facile. «Ero come spezzata dentro, dovevo prima ricostruirmi, riprendermi, ho dovuto lavorare molto a livello psicologico ed emotivo – rivela -. C’è stata anche molta pressione sociale».

La famiglia, purtroppo, non la supporta immediatamente. «All’inizio mi ha rifiutata. Le cose sono cambiate solo quando ho trovato un lavoro e ho conosciuto l’agenzia nazionale antitratta, che per me ha fatto moltissimo, come il governatore dello Stato di Edo (nella Nigeria meridionale ndr)». Da quel momento Abu Florence riprende in mano la sua vita e inizia a raccontare la sua storia. Praticamente senza fermarsi più. Va nelle scuole, nelle moschee, nei programmi tv. All’improvviso il suo nome e il suo volto sono su tutti i giornali, nei notiziari, nei talk. Oggi è per la prima volta a Palermo, in occasione della 13esima Giornata europea contro la tratta. «Ho dovuto farlo. Raccontare la mia storia può evitare ad altre donne, soprattutto alle ragazzine, di imbattersi nello stesso destino». Ma la notorietà non le ha certo cancellato la memoria. Abu Florence inizia una guerra a distanza con gli aguzzini che le hanno rubato cinque anni della sua vita, denunciandoli e facendo in modo che finissero condannati.

«Ci sono tante donne che non hanno il coraggio di lasciare i propri sfruttatori – spiega -, soprattutto per la questione del woodoo e dei riti cui sono costrette. Comprendo benissimo questa paura. Le donne a cui racconto la mia storia, specie quelle che sono dirette in Europa, hanno reazioni diverse: alcune si spaventano, vorrebbero cambiare i loro piani e non partire più. Altre subiscono la pressione della famiglia e non possono tirarsi indietro. Il problema è che non c’è ancora piena consapevolezza della dimensione del fenomeno tratta, del fatto che colpisca tutte, a prescindere, molte non ci pensano e affrontano il viaggio pensando “a me non può succedere”. Ma nessuna ne è immune, succede sistematicamente a tutte». Da qui l’importanza di sensibilizzare le donne, perché imparino a riconoscere e a ribellarsi a ogni tipo di maltrattamento, che sia sessuale o di altra natura. «È importante raccontare storie come la mia specie per i più giovani, che sono in genere la categoria più esposta, più a rischio, rendendoli consapevoli».

Quando lei rimane vittima dei suoi sfruttatori, non a caso, ha appena 19 anni. Poco più che una ragazzina. Oggi ne ha 25 e gira ogni angolo della sua terra e del mondo per mettere tutti in guardia. «Racconto a parte, quello che non deve mai mancare soprattutto quando interagisco con donne che hanno vissuto la stessa esperienza è l’amore. Perché una vittima spesso può sentirsi rifiutata da tutti – spiega Abu Florence -, è importantissimo quindi il modo con cui ci si avvicina a queste donne. E poi è fondamentale un supporto psicologico, perché non dimenticherà mai quello che ha subito». Malgrado tanta sofferenza, nel suo volto non c’è nemmeno una ruga di rabbia, di livore, di risentimento. Ci sono solo dignità e serietà, sembrano scolpite sulla sua faccia, che non si concede quasi mai un sorriso mentre affronta il ricordo di quei cinque anni. «Ogni tanto penso che in fondo sia stato un bene acquisire una consapevolezza tale di quello che ho subito da riuscire poi a raccontarlo, solo così posso aiutare gli altri – rivela -. È così che mi vedo in futuro, proprio come sono oggi e fare quello che già faccio, cioè aiutare gli altri, nella speranza di fare sempre la differenza». Sempre a testa alta, sempre senza paura. Un sentimento che, quello sì, da tempo ha ormai dimenticato. «Minacce? Intimidazioni? Dopo tutto quello che ho passato, di cosa dovrei ancora avere paura?».

Silvia Buffa

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