A Ognina i funerali del boss Pippo Ercolano La figlia: «Beati i perseguitati dalla giustizia»

«Beati i perseguitati dalla giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». Giuseppe Ercolano, u zu Pippu, per la sua famiglia è stato un perseguitato. «Ma dio è un giudice giusto – dice Mariella Ercolano ai partecipanti al funerale del padre, morto nella sua casa di Catania il 29 luglio, a 76 anni – e finalmente sarà giudicato come merita». Perché Pippo Ercolano «era un uomo, un uomo vero», trattato «ingiustamente». Che adesso, «da lassù, grida “Evviva! Grazie, Gesù, per avermi liberato dalle catene che mi hanno tenuto imprigionato in vita”».

Giuseppe Ercolano era il cognato del boss Nitto Santapaola, avendone sposato la sorella. E proprio lei, dalle prime file della chiesa di Ognina non ha detto una parola. Stretta nei suoi vestiti neri e nel suo contegno, Grazia Santapaola ha lasciato parlare Mariella e le sue giovani nipoti. Ma la mafia e gli omicidi sono rimasti lontani dal pulpito. Ridotti a maldicenze. Non una parola sul carcere per associazione mafiosa, né sui continui arresti, né sul 41 bis al quale è scampato per via del suo precario stato di salute, né sul processo Iblis nel quale era implicato. Non un accenno a quel suo figlio, Aldo Ercolano, all’ergastolo per l’omicidio – concordato con lo zio Nitto Santapaola – del giornalista catanese Giuseppe Fava.

Davanti a una bara sobriamente ricoperta di fiori, Giuseppe Ercolano – uomo d’onore a partire dagli anni Settanta e membro di spicco di Cosa nostra nei suoi anni più violenti – è solo «un uomo forte, determinato, orgoglioso». Nel discorso di Grazia, una nipote, u zu Pippu è «un temerario, un uomo rispettoso, che lotta per i suoi valori che sono diversi da quelli del resto del mondo e per i quali non esita a combattere». Ercolano nonno, Ercolano boss. Ma quando l’altra nipote comincia a parlare – è giovane, pare appena ventenne – è chiaro che l’uomo di mafia non è argomento da toccare. «Come tutti i miei cugini, ho avuto poco modo di conoscere mio nonno», comincia calma. Poi s’infervora: «Alla faccia di chi lo disprezza, di chi disprezza la sua famiglia, di chi ci guarda con determinati occhi… Non avete capito nulla. Ma di cosa parlate?». «Parlate di quello che avete letto – continua – di quello che avete sentito, ma non sapete niente, non sapete quello che c’è nel nostro cuore e non esiste che vi permettete di dire determinate cose. Siete ignoranti, è l’ignoranza che vi fa parlare». E conclude: «Nonostante tutto quello che si dice, io sono orgogliosa di averlo avuto come nonno, sono orgogliosa di essere parte della sua famiglia». Gli applausi, per lei, sono fortissimi. Tutti si alzano in piedi. Subito dopo, il prete conclude la messa.

I dipendenti delle onoranze funebri iniziano a sistemare le ghirlande sulle auto. Sono tutte dell’azienda D’Emanuele. Sebastiano D’Emanuele e Natale D’Emanuele sono i cugini di Nitto Santapaola. La loro famiglia, secondo indagini che partono negli anni Novanta, controlla il racket del caro estinto. Nel 2010 sono stati arrestati Antonino e Andrea D’Emanuele, complici secondo i magistrati del meccanismo che legava gli infermieri degli ospedali alle imprese D’Emanuele, chiudendo il mercato delle onoranze funebri in un monopolio.

Dopo le condoglianze di rito, la folla si disperde. Due uomini anziani, intervenuti anche loro alla cerimonia, si fermano a parlare davanti alla porta della chiesa: «Non è rimasto più nessuno», dice uno dei due, in dialetto stretto. «Ormai – gli risponde l’altro – ci è rimasta soltanto la buona parola».

Luisa Santangelo

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