A Catania il parto diventa un’esperienza multiculturale Dal rito cinese contro gli spiriti agli abiti da principesse

Partorire è un gesto universale che, però, mantiene differenti particolarità e tradizioni che hanno origine in diverse parti del mondo. Molte delle quali si incrociano a Catania. «La più classica che da noi si conserva ancora è quella della camicia della fortuna», spiega a MeridioNews l’ostetrica Patrizia Barresi che, nell’ambulatorio solidale creato all’interno dell’ospedale Cannizzaro, entra a contatto con donne e pancioni di ogni nazionalità. «La convivenza è spesso caotica ma nei corridoi e nelle sale d’aspetto si crea uno scambio interculturale prenatale».

La più tradizionale delle usanze italiane è una piccola casacca di cotone o di seta che viene regalata alla futura mamma dal terzo mese di gravidanza in poi. «Nasce in tempi antichi – racconta Barresi – perché, in un’Italia povera e rurale, gli abiti per i neonati erano spesso cuciti con stoffe grezze che potevano quindi creare irritazioni alla pelle». Prima di diventare un’usanza tradizionale, dunque, la camicina era necessaria per proteggere il bambino appena nato da eventuali allergie dovute alle stoffe. «Oggi, la maggior parte dei vestiti è fatta di materiali idonei però resta l’usanza, specie al Sud, che si tramanda di generazione in generazione insieme alla credenza che porti fortuna», racconta l’ostetrica. 

Stesso uso e stesso costume anche dall’altra parte del mondo. «Le donne cinesi avvolgono i bambini appena nati in un lenzuolo rosso. Una volta ho chiesto il motivo di questo gesto a una di loro – ricorda l’ostetrica – e mi hanno risposto che serve a tenere lontani gli spiriti maligni». Ogni venerdì mattina – dalle 8 in poi in ordine di arrivo – nell’unico ambulatorio in Sicilia che si occupa gratuitamente di donne incinte in condizioni di disagio economico o sociale o che siano alla quarta gravidanza, la formula è quella del one shot, ovvero gli esami necessari (prelievo del sangue, ecografia, visita, tracciato) vengono fatti tutti in un solo giorno. Il progetto, nato nell’agosto del 2012 dall’idea di Fabio Guardalà, uno dei dirigenti medici del reparto di Ginecologia, viene portato avanti da un gruppo di ginecologi, ostetrici e infermieri volontari. Il giorno di ferragosto a bordo di una nave arrivata al porto di Palermo, tra le centinaia di migranti, ci sono anche 21 donne in gravidanza. Tutte vengono portate al Cannizzaro. 

«In questi sette anni, l’utenza multiculturale è sempre aumentata: ragazze nigeriane che provano a chiacchierare con donne dello Sri Lanka sedute tra le giovani del Bangladesh che sono le più silenziose», dice Barresi. Nell’attesa di essere chiamate per il proprio turno, le future mamme condividono storie che si intrecciano. «Le africane, per esempio, portano con sé sempre un sacchettino di terra dal proprio Paese di origine. Le più particolari tra loro – racconta l’ostetrica – sono le somale che hanno un cordoncino (un vero e proprio filo di spago, ndr) attorno alla vita a cui è legato un piccolo sacchetto di cotone o di pelle dentro il quale, in base alla tribù di provenienza, conservano ricordi della propria infanzia o della propria terra». Nessun problema se il parto è naturale, un po’ più complicato da gestire in caso di necessità di un cesareo. «Non offendiamo mai le diverse tradizioni anche perché – sottolinea – per queste donne spesso sole, è un simbolo che dà forza». 

Paese che vai, usanze che trovi. «Le mamma dello Sri Lanka non hanno mai pronto il nome del nascituro anche quando si conosce già con certezza il sesso», fa notare Barresi. Nel Paese dell’Asia meridionale, infatti, sono gli anziani della famiglia a decidere come si chiamerà il bambino «dopo uno studio particolare che fa arrivare ad assegnare il nome – spiega l’ostetrica – in base al giorno e all’orario in cui è nato il bambino». Per adeguarsi ai tempi, alcune famiglie più moderne danno la possibilità ai neo-genitori di scegliere il nome decidendo tra una rosa di tre; altre assegnano solo la lettera iniziale. «Di recente, in uno di questi casi, dopo la nascita di una bimba ai genitori è stata assegnata la lettera A e hanno deciso di chiamare la loro figlia Agata come omaggio alla santa della città in cui vivono». Cognome cingalese affiancato al nome femminile catanese per eccellenza.

Una bizzarra tendenza che si sta diffondendo di recente tra i reparti di neonatologia catanesi è quella di abbigliare i neonati con vestiti pomposi. «Le più strapazzate sono sicuramente le femminucce che alcuni genitori catanesi, già da appena nate, vogliono vestire da principesse». Abiti di tessuti sintetici, ricoperti di tulle, merletti e perline o fiori giganti rialzati «che oltre a essere scomodi – spiega l’ostetrica – possono anche diventare pericolosi». E non va meglio ad alcuni maschietti. «Qualche tempo fa – conclude Barresi – ho dovuto vestire un bambino appena nato con un vero e proprio costumino da principe azzurro: pantalone attillato azzurro, camicetta bianca, gilet azzurro e perfino un cravattino di pizzo e, in testa, il basco con tanto di piuma». 

Marta Silvestre

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