A Catania è tempo di sgomberi

A differenza del primo immobile, quello sgomberato stamattina non è confinato nella periferia declassata della città, è in pieno centro. I catanesi lo conoscono bene, il palazzo delle Poste e sanno che l’occupazione da parte di circa 350 persone tra cui Rom e immigrati di diverse etnie – la maggior parte viene dalla Somalia, Mali, Guinea e Costa D’Avorio – e la frequentazione di drogati e prostitute, va avanti da anni ormai. Eppure, sembra quasi che la città abbia aperto gli occhi solo oggi su questo mostro del degrado urbano.
Così, quando alle 8.30 arriviamo dentro l’agglomerato ci rendiamo conto che lo spazio e la struttura lasciata a marcire sono enormi, e a confronto il palazzo di cemento con le sue 96 abitazioni ci sembra “poca cosa”. Impossibile andare a vedere dappertutto, sarebbe impossibile anche se non ci fossero immondizia, siringhe, escrementi e una puzza insostenibile a frenare la curiosità e il dovere di cronaca.

La situazione è tranquilla. L’assessore Carlo Pennisi è sul posto, parla spesso al telefono, non è prodigo di informazioni su costi e strategia di queste operazioni. Polizia, vigili e pompieri aspettano indicazioni su come operare, di immigrati e Rom non ce ne sono già più: l’esodo è cominciato ieri sera, soprattutto di chi sapeva di non avere documenti da mostrare. I Rom sono stati trasferiti in un’area allestita nel campo sportivo di Fontanarossa. D’altronde la notizia dello sgombero circolava già da diverso tempo e non li ha trovati del tutto impreparati.
Molta roba è raccolta fuori, imballata alla buona: televisori, frigoriferi, forni, materassi, la maggior parte con i nomi dei proprietari scritti sopra. Molta è stata lasciata dov’era, nei locali pieni di immondizia: scarpe, materassi, vestiti, bici, cibo: tutte le stanze sono “case”: cucina stanza da letto e bagni insieme e allo stesso tempo discariche.
Colpiscono le luci ancora accese di lampadine attaccate alla corrente alla meno peggio, e soprattutto le scarpette, le macchinine e gli zainetti dei bambini. Chissà perché, volevamo illuderci che quello fosse un posto solo per grandi.

Riusciamo a salire al primo piano: il teatrino degli orrori. Platea e palchetto sono un campo minato di cacca e siringhe, per addentrarci pestiamo le prime per evitare le seconde. Non è facile parlare e neanche respirare. I pompieri si stanno già muovendo e qualcuno chiede urlando delle cesoie. Alcuni locali, quelli degli abitanti stabili, hanno un lucchetto che chiude la catena che passa dai fori fatti sul muro e sulla porta.

Dobbiamo uscire, devono rendere l’area “sterile”: gli unici che vengono sgomberati in realtà sono i giornalisti. “Ci avissunu ddari a focu”, commenta qualcuno.
Mentre usciamo leggiamo sui muri pieni di scritte e disegni, qualcuno anche bello: “O raciste (razzista), ben presto sarete radunati davanti a Dio”; “Che sta minchia guadagnate con le racisme (razzismo). Va fanculo”.

All’aeroporto è già scoppiata la polemica tra il Comune e la SAC, la società aeroportuale, che accusa l’amministrazione di aver compiuto una mossa che lede l’immagine dell’azienda e del turismo.  Si sente qualcuno dire: “Andiamo al campo Rom, lì ci sarà molto da riprendere. Qui la festa è finita”. E mentre la puzza si allontana, la nausea aumenta.

Agata Pasqualino

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