Un 28enne di Catania gestisce diverse pagine sui social network. Venticinquemila fan da una parte, 35mila dall'altra e duemila in un'altra pagina ancora. Con centinaia di commenti. «I social sono spesso il luogo dell'esaltazione di atti criminali e di soggetti mafiosi», dice Marcello La Bella, dirigente della polizia postale
Cosa nostra, Il Padrino 2.0 corre su Facebook «Non mi confesso perché tanto non mi pento»
Un’immagine di Totò Riina dietro le sbarre. E sotto i commenti: «Buonasera, zio Totò» e «Rispetto». In un’altra foto sempre il boss corleonese di Cosa nostra, recluso dal 1993 e mai pentitosi, e la didascalia: «Le più belle parole sono i fatti». È il contenuto di una delle tante pagine Facebook gestite da un catanese di 28 anni, detenuto a Reggio Emilia. «Sono un ragazzo recluso per metà. Mi trovo in una comunità, sono cresciuto per le strade di Catania», si presenta. Venticinquemila fan da una parte, 35mila dall’altra, duemila in un’altra pagina ancora. E centinaia di commenti. Una vera e propria comunità. «Ti aspettiamo con ansia, è successo qualcosa?», gli chiede una donna. «No, tranquilla, è la connessione che non va». E ancora: «Il 22 ho la sentenza di primo grado, c’è il rischio che dai domiciliari mi cambino la misura con il carcere. Come andrà andrà, un bandito resterò». È accusato di estorsione in concorso. E il catanese risponde: «Ti auguro che il giudice si sveglia bene».
Tra i post c’è spazio anche per poesie, incoraggiamenti, esperienze: «Sono agli arresti, mi hanno preso a Bologna», gli dice un uomo. Poi gli abbracci, le battute, le foto con centinaia di condivisioni: «Non mi confesso perché tanto non mi pento». «I social media sono spesso il luogo dell’esaltazione di soggetti mafiosi», dice Marcello La Bella, dirigente della polizia postale di Catania. Se in passato era il cinema a costruire un immaginario collettivo legato alla mafia, adesso per questo c’è Facebook, con contenuti che nascono dal basso e che vengono rilanciati da centinaia di migliaia di utenti. «Il rischio è che si sviluppi un forte spirito emulativo – continua La Bella – Soprattutto tra gli adolescenti». A lanciare certi messaggi «si commette apologia di reato: dal terrorismo al vilipendio alle istituzioni».
Nel 2015 sono stati tanti i profili e le pagine sui social network gestiti da pregiudicati o dai parenti e amici dei carcerati. Una di queste raccoglie quasi 50mila persone. E pubblica immagini scattate poco prima dell’ingresso nella sala colloqui del carcere di San Vittore, a Milano. «Internet può essere un’opportunità per i detenuti, ma nelle carceri è vietato». Al contrario, è possibile usarlo nel caso in cui ci si trovi reclusi in comunità – come il cittadino etneo star dei social – o agli arresti domiciliari. «A meno che non ci siano particolari disposizioni dei giudici», spiega l’investigatore. Che aggiunge: «Il nostro lavoro su Facebook è simile a quello dei poliziotti che girano con le volanti per le strade – prosegue – È complicato, perché le sedi delle aziende titolari di social network si trovano in Stati in cui i reati di pensiero non sono perseguiti».
Ci sono occasioni, però, in cui i pedinamenti telematici «si trasformano in perquisizioni domiciliari. Sono i casi in cui a partire da materiale online si possono perseguire reati». Come le corse di cavalli alla circonvallazione di Catania, scoperte grazie ai social network. Oppure l’inchino di una varetta sotto casa del boss Assinnata, a Paternò, durante la festa di santa Barbara. In quella circostanza, a pubblicare su Facebook il video era stato un ragazzino poco più che adolescente. «In casi in cui ci sono bambini di mezzo facciamo partire, dopo un’attenta valutazione, le segnalazioni ai servizi sociali e al tribunale per i minorenni – sostiene Marcello La Bella – Andiamo nelle scuole a incontrare i ragazzi, e ci capita che alcuni di loro giustifichino certi comportamenti. Per questo lavoriamo con i genitori o, se non è possibile, gli insegnanti».
«Da poliziotto: per me non è normale che una persona esalti Totò Riina», conclude il dirigente. Un esempio che sintetizza i messaggi veicolati dalle pagine Facebook gestite dal cittadino etneo recluso a Reggio Emilia. Che raccoglie, però, le riflessioni di molte persone. Come quelle di un uomo che gli racconta il suo passato. E il suo presente. «Avevo 18 anni e due giorni, la mia prima volta in carcere. Un pischello – scrive – Di anni ne sono trascorsi 32 e ‘sto capitolo ancora non è chiuso. Sono diventato un uomo in fretta, seguendo regole ferree e giuste, per chi decide di intraprendere quella strada. Ora si è perso tutto: onore, rispetto, fratellanza e omertà».