Da Trapani al Kurdistan, inseguendo uno scatto «Tornerò a Kobane per raccontare la ricostruzione»

Francesco Bellina condivide la data di nascita con il giorno che segna la caduta del muro di Berlino, uno degli eventi più importanti della storia contemporanea. E da grande, divenuto fotografo dapprima per passatempo, Bellina – originario di Trapani – ha sentito la necessità di incrociare la storia con la sua macchina fotografica per raccontarne da vicino gli eventi. A contraddistinguere i suoi scatti è una lente «sociale e documentaristica», spiega a MeridioNews

I progetti fotografici che firma puntano molto sulla cifra umana di ciascuno scatto, da Deep che presenta i volti di un gruppo di richiedenti asilo ospitati al Cara di Salinagrande a Melting pot, una serie sulla diversità di etnie nella metropolitana di Londra. «Un anno e mezzo fa, insieme a un collega, abbiamo documentato la crisi economica che investiva la Grecia, andando alla sede della televisione di Stato Ert 3 a Salonicco e – continua Bellina – presso una fabbrica di materiali edili occupata dagli operai appena lincenziati». Il suo ultimo lavoro dal titolo Rojbas si è guadagnato la menzione d’onore al Premio Internazionale di Fotografia di Parigi e un riconoscimento da Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato. La serie di scatti è stata realizzata nel Kurdistan turco durante il Newroz – il cosiddetto Capodanno curdo – che cade il 20 marzo di ogni anno. Bellina, che non è nuovo a riconoscimenti e pubblicazioni, scherza: «Il progetto è piaciuto molto ma nessuno lo ha ancora acquistato».

La battuta sul mancato acquisto di Rojbas rischia di non essere solo tale per un fotoreporter venticinquenne che si autofinanzia nei modi più disparati, facendo della fotografia il suo mestiere. «Ho iniziato a scattare quando avevo tredici anni e poi ho abbandonato dopo l’iscrizione a Giurisprudenza. Alla fine ho lasciato l’università e ho fatto i lavori più assurdi per pagare l’attrezzatura fotografica e i viaggi», racconta Bellina. Rojbas – che in curdo equivale a Buongiorno – racconta la voglia di riscatto del popolo curdo rispetto all’immaginario comune intriso di guerra e fucile. «Per andare in Kurdistan mi sono autofinanziato, come sempre, e ho seguito un’associazione internazionale di osservazione curda. L’esperienza è stata meraviglisa», afferma Bellina. Che, una volta arrivato nell’area tra la Siria e la Turchia «molto vicino alla città di Kobane dove intendo tornare in futuro», si è mischiato alle carovane curde. In un territorio delicato e minacciato delle forze dell’Isis, Bellina confida di non avere temuto nemmeno per un attimo per la propria vita. «In realtà non ho nemmeno pensato alla paura perché questo progetto era un sogno che si realizzava», confida. Tant’è che «sono rimasto lì soltanto una settimana ma non me ne sarei mai voluto andare». 

La passione che investe il suo lavoro si traduce nella volontà di diventare un osservatore privilegiato «di storie di persone in carne e ossa, un po’ come il giornalismo di reportage di una volta», racconta. Un’arte che, insieme al fotogiornalismo puro, si scontra a suo dire con «la crisi dell’editoria e la guerra tra poveri degli operatori del documentarismo». L’esperienza in Kurdistan ha lasciato in Bellina il ricordo di una società semplice e molto compatta «in cui bambini che non hanno nulla tra le mani riescono a gioire per le cose più piccole. Una cosa che noi, nel mondo Occidentale, abbiamo perso», commenta. «I curdi sono un popolo meraviglioso dal quale dovremmo imparare l’unità e la propensione a fare rete, a fronte di una società occidentale che invece ci rende sempre più soli», aggiunge. 

Il recente premio attribuitogli a Parigi lo ha riempito di gioia e gli ha dato gli stimoli giusti per continuare a proseguire nella fotografia documentaristica, quella tracciata nella storia della materia da Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, «i primi fotografi sui quali si indaga quando ci si avvicina alla macchina fotografica», afferma Bellina. Nei suoi progetti futuri c’è la voglia di raccontare la ricostruzione alla quale si avvicina la città siriana di Kobane e un libro fotografico sul quale preferisce mantenere il mistero, continuando a esercitare la professione di reporter fotografico «che non ha studiato in nessun libro ma che ho imparato da me stesso», conclude. 


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