Non ci sono indizi così forti da giustificare la misura cautelare: queste le motivazioni – depositate oggi e relative all’udienza dello scorso 20 dicembre – del no da parte della Cassazione all’arresto di Salvatore Caputo, commissario di Palermo per Noi con Salvini. Due volte sindaco di Monreale (Palermo), con un passato missino, poi in An e nel Pdl. La Suprema corte ha respinto il ricorso della Procura di Termini Imerese che chiedeva il ripristino dei domiciliari per Caputo in relazione all’accusa di voto di scambio alle amministrative del 2018. Secondo la Procura siciliana, Caputo avrebbe ingannato gli elettori per aver fatto candidare all’Ars il fratello Mario al posto suo, e averlo sostenuto giocando sull’equivoco della parentela, dopo essere stato dichiarato incandidabile dalla legge Severino a seguito della condanna a un anno e cinque mesi per tentato abuso d’ufficio per aver cercato di ‘cancellare’ delle multe quando era sindaco.
Caputo era finito ai domiciliari il 3 marzo 2018, e la misura era stata annullata dal riesame di Palermo il 20 aprile. Ad avviso del pm di Termini, le condotte ingannevoli commesse da Caputo consisterebbero nell’aver ufficializzato la candidatura del fratello Mario affiancandogli il soprannome di ‘Salvino’ «con cui veniva comunemente identificato lui e non il fratello Mario, nella diffusione di volantini con la sola scritta Caputo, nell’aver condotto una campagna elettorale in proprio e non in nome del fratello presentandosi o facendo credere di essere il vero candidato».
Per la Cassazione, questi indizi non sono sufficienti perché «plurimi elementi indicano che Salvatore Caputo si era vigorosamente impegnato a favore del fratello», esistevano anche volantini con l’indicazione del nome Mario Caputo e comunque l’indicazione del solo cognome del candidato «non costituisce una falsa indicazione di elementi identificativi». Quanto alle telefonate ricevute da Salvatore Caputo da parte di elettori che gli comunicavano di averlo votato, per la Cassazione può trattarsi di telefonate «genericamente espressiva di una volontà, da parte degli elettori in questione, di mantenersi fedeli al più famoso dei Caputo, nella consapevolezza che dietro il fratello Mario vi fosse la figura, più riconosciuta ed autorevole, di Salvatore e che, dunque, il voto dato al primo era stato, comunque, un voto dato al politico incandidabile, della cui volontà il germano sarebbe stato il fedele esecutore». Gli elettori che gli dicevano di «averlo accontentato» si riferivano al fatto, «non infrequente, a elezioni concluse», che gli elettori «informino del proprio voto colui il quale si sia speso in prima persona per un determinato candidato», come avevano rilevato i giudici del riesame con motivazione ritenuta «non illogica» dagli ‘ermellini’ (verdetto 16380).
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