Panarea, con i suoi tre chilometri e mezzo quadrati di superficie, è la più piccola delle sette sorelle dell’arcipelago delle Eolie. Penultima, in ordine di fermate con l’aliscafo, prima di approdare a Stromboli, ultimo pezzetto di terra siciliana. Tanti i nomi con i quali l’isola fu battezzata: Thermisia, perchè ricca di acque calde; Euonymos, di buon auspicio; ma anche Panaraion, la distrutta, fino ad arrivare a Pagnaria, la maledetta e quindi a Panarea. Distrutta e maledetta, due nomi che poco le si addicono guardando la bellezza delle sue coste, i luminosi e vivaci colori del piccolo villaggio e lo splendore del suo mare.
La ragione di questi sinistri soprannomi risiede nel passato geologico piuttosto turbolento di Panarea, all’inizio del quale, in realtà, l’isola era la più grande di tutto l’arcipelago. Spinazzola, Basiluzzo, Dattilo, Lisca Bianca, Lisca Nera, Bottaro, Panarelli e Le Formiche: questi i nomi degli scogli, più o meno grandi, che formano il corteo che accompagna Panarea e che testimoniano le sue antiche dimensioni. Infatti, l’isola e i suoi isolotti, arcipelago dentro l’arcipelago, rappresentano soltanto la parte emersa di un grosso edificio vulcanico prevalentemente sottomarino che, a seguito di una serie di violente esplosioni, fu progressivamente distrutto per poi sprofondare poco sotto la superficie dell’acqua. La prova di ciò è che il basamento dell’edificio vulcanico è posto ad appena 130 metri di profondità. Molto poco, se consideriamo che i fondali attorno a tutte le altre isole delle Eolie s’immergono rapidamente alle vertiginose profondità che variano dai 1500 ai 3000 metri. Qui invece si ha un fondale più o meno omogeneo che, addirittura, in alcuni tratti compresi tra gli isolotti minori arriva alla profondità di appena una ventina di metri.
Proprio la presenza di questi blocchi di roccia fece sì che l’isola si guadagnasse l’appellativo di isola maledetta. Tutti gli antichi velieri che osavano transitare di notte da queste parti finivano infatti con l’affondare dopo l’impatto con uno degli scogli del piccolo arcipelago. Tra essi, uno in particolare spicca più di tutti in dimensioni: si tratta di Basiluzzo, che in passato era addirittura abitato, come testimoniano alcune rovine di una villa romana scoperte sulla sua sommità. Oggi Panarea è una meta molto ambita da numerosi subacquei: i suoi bassi fondali e le sue varie secche, infatti, sono l’ideale per immersioni anche poco profonde che però permettono di divertirsi in tutta sicurezza. Per lungo tempo quest’isola ha portato addosso un’etichetta un po’ snob: la colonia estiva della Milano bene, economicamente inavvicinabile, con un turismo basato esclusivamente su aperitivi chic, alberghi di lusso e discoteche esclusive. In effetti è questa la faccia che Panarea mostra al turista frettoloso che trascorre la settimana di Ferragosto sull’isola. Elegante, costosa, anzi costosissima, insomma, non alla portata di tutti. Ma al turista più attento, quello che sceglie di visitarla a giugno o a settembre, Panarea mostra il suo volto più timido e sincero e tutto lo splendore che, nonostante quello che si possa credere, fa rima con semplicità.
Dal mare le sue piccole case non sembrano altro che una manciata di dadi bianchi lanciati a caso tra le rocce e il verde rigoglioso della macchia mediterranea; l’intreccio di stradine sembra costruito apposta per le motoape, gli unici mezzi oltre agli scooter, in grado di muoversi sull’isola; i muri grezzi e bianchi delle case, alti poco più di un uomo, svelano agli sguardi indiscreti scorci di intima quotidianità dei suoi abitanti; il profumo selvaggio dei fichi d’india si mescola a quello delicato delle bouganville il cui colore regna incontrastato su tutto il villaggio; la piccola chiesetta di San Pietro, con il suo interno fresco e la grande terrazza che si affaccia su uno spettacolare panorama su Basiluzzo, dominato dall’intenso blu del mare. Sono questi i tratti della Panarea più autentica, ben lontana dal vestito che, inevitabilmente, è costretta a indossare ad agosto. Chi volesse ammirare la vista su tutte le isole dell’arcipelago dal Timpone del Corvo, il punto più alto dell’isola a 421 metri di altitudine, non deve far altro che allacciare le scarpe da trekking e mettere in conto un’ora circa di cammino. Proprio nel villaggio di San Pietro si trova il vero cuore dell’isola con tutti gli alberghi, i ristoranti, i negozietti di souvenir, di abbigliamento e di artigianato.
Altre contrade abitate sono Iditella, nella zona nord dell’isola, famosa per la Spiaggia della Calcara, zona in cui si possono osservare delle fumarole sottomarine, testimonianza della residua attività vulcanica. Altro luogo, ancora più interessante e raggiungibile solo con la barca, dove poter osservare il ribollire del mare per effetto della risalita dei treni di bolle dalle fumarole, è la zona compresa tra gli scogli di Bottaro e Lisca Bianca. In questa area, nel 2002, alcuni pescatori si accorsero di una serie di violenti fenomeni di degassazione sottomarina. A seguito di questi eventi l’isola, considerata per lungo tempo estinta, è stata reinserita tra i vulcani attivi dell’arcipelago, insieme a Stromboli e a Vulcano. Di certo, a Panarea, sarebbe un peccato non fare il giro dell’isola in barca. Sosta obbligata è alla splendida Cala Junco che, a detta di molti, è l’insenatura più bella di tutto l’arcipelago eoliano, incastonata tra Punta Milazzese e Scoglio Bastimento. In effetti basta ammirare il colore dell’acqua, come fosse una piscina naturale, per rimanere incantati dalle mille sfumature e riflessi di azzurro. Proprio sopra Cala Junco si può visitare l’antico villaggio preistorico, testimonianza di come l’isola fosse abitata già a partire dell’età del Bronzo (XIV secolo a.C.).
Altra spiaggia, anzi forse l’unica vera spiaggia sabbiosa di Panarea è Cala Zimmari, nota anche come spiaggia rossa per il tipico colore della sua sabbia, è accessibile tramite un piccolo sentiero partendo dal porto e arrivando alla frazione di Drauto, nel versante sud. Come Stromboli, anche Panarea è sprovvista sia di auto che di illuminazione stradale e ciò la rende un’oasi di pace e tranquillità dove perdere i contatti con l’esterno e dimenticarsi del tempo che passa.
(Foto di Michela Costa)
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