Via D’Amelio, sentito in aula il ladro gentiluomo Pipino «Una telefonata da Palermo per farmi sentire degli spari»

«Io non potevo vederlo quell’uomo là, anche se ho sempre avuto un buon rapporto coi poliziotti. Arnaldo La Barbera a Venezia era visto come un mito, andare contro di lui significava mettersi contro tutta la questura di Venezia». Ci pensa bene, infatti, Vincenzo Pipino, prima di raccontare quello che l’ex capo della mobile di Palermo negli anni delle stragi gli avrebbe chiesto. Lui, veneziano doc e passato agli onori delle cronache con l’appellativo di ladro gentiluomo («rubavo solo ai ricchi ricchi e non ho mai usato violenza»), parla ufficialmente, in occasione del Borsellino quater, dell’ingaggio ricevuto nel ’92. Ed è tornato a parlarne questa mattina davanti ai giudici dell’aula Loforti, dove si sta celebrando il processo a carico dei tre ex poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, ex uomini del gruppo Falcone-Borsellino accusati di calunnia aggravata. L’ingaggio che La Barbera avrebbe proposto a Pipino è di condividere la cella per qualche tempo con Vincenzo Scarantino, fresco di arresto a pochi mesi dalla strage di via D’Amelio, e di provare a carpire qualcosa da lui.

«Quando mi ha parlato di questa cosa io mi trovavo a Roma, a Rebibbia – racconta il teste -, ero coinvolto in una faccenda di droga da cui poi sono uscito assolto». Ma non è in carcere che Pipino vede per la prima volta La Barbera. «Lui era l’amante della sorella della mia commare di nozze, avevano una relazione, l’ho conosciuto così – dice -. Che aveva rapporti coi Servizi segreti l’ho saputo mentre ero lì a Roma in carcere, era l’88-89 circa, me lo raccontò un maresciallo». Qualche tempo dopo riceve anche una strana chiamata al telefono di casa sua, a Venezia, che lo preoccupa: «Circa due minuti e mezzo di silenzio e poi il rumore di alcuni colpi di pistola sparati, il numero sul display era quello dei carabinieri – ricorda, restando però vago sul punto -. Avevo paura di essere messo nei guai, io con la mafia non avevo mai avuto nulla a che fare, avevo solo conosciuto dei mafiosi in carcere, nulla di più». Incalzato dagli avvocati della difesa aggiunge, rispetto a questo ambiguo episodio che «La Barbera conosceva quel numero di telefono», quello di casa sua, e che dopo quella telefonata «fece una relazione alla mobile di Venezia in cui diceva di chiedere a me per quale motivo avessi ricevuto quella chiamata, voleva che mi chiedessero in che rapporti ero con chi aveva chiamato. Qualcuno che mi chiedeva se era possibile far cambiare in Cassazione il giudizio di un processo, ma risposi che chi gli aveva detto quella cosa gli aveva detto una bugia».

L’anziano testimone, poi, si concentra sulla figura di La Barbera. «Era un poliziotto singolare e questa singolarità non è che me la sono inventata io. Lo fuggivo come la peste, non mi fidavo di lui». Malgrado cerchi di limitare al minimo i rapporti, però, alla sua proposta lui risponde di sì e dopo alcune resistenze accetta. «È venuto a trovarmi mentre ero in carcere, “penso che tu sei la persona più adatta da mettere in cella con Scarantino perché tutti hanno stima di te, hai già avuto problemi di giustizia”, questo e quell’altro, mi dice lui. Io ho detto di no, lui diceva di volermi aiutare con la libertà provvisoria, ma io insistevo, ero innocente e lo avrei dimostrato al mio processo, ma lui voleva che gli facessi questa cortesia, “devi solo capire se sia colpevole o innocente, tirargli fuori qualcosa” – gli avrebbe detto La Barbera -. “Non voglio che tu fai lo sbirro, ti metto solo in cella con questo qua, non ti preoccupare, lo portiamo a Venezia”. Era ottobre mi pare, è passato a prendermi a casa, in auto c’erano altre tre persone in borghese. Quando sono arrivato a Venezia in cella c’era già Scarantino, lo avevano portato in elicottero da Genova», racconta. La Barbera gli avrebbe anche offerto dei soldi, 150milioni, «ma io non volevo vederlo più, pur di mandarlo via ho detto di no e gli dissi chiaramente di non immischiarsi nelle mie faccende penali».

Al suo arrivo, quindi, l’uomo da cui avrebbe dovuto carpire qualcosa è già lì, in quello spazio senza nessun altro detenuto che condivideranno per poco meno di una settimana. «Piangeva disperato, ho capito subito che non c’entrava niente – dice Pipino -. Al quinto giorno mi sono tolto il microfono e ho detto a Scarantino che la cella era piena di microspie. Quando ho capito con certezza che lui era estraneo a queste storie io l’ho detto a La Barbera, per non violentare la coscienza di quell’individuo che era innocente. A uno come me, entrato in carcere a 14 anni e che ancora ci stava a 60, chi mi poteva fregare con delle bugie?». In quei pochi giorni Pipino si accorge anche che in cella, oltre ai microfoni, c’è un telefono nero: «Scarantino non l’ha visto, ero convinto fosse una furbata, una trappola, quindi l’ho fatto a pezzi mentre lui era in doccia e l’ho buttato fuori dalla finestra, poi è stato recuperato dagli agenti di penitenziaria – rivela ancora -. Non ne parlai con nessuno, non volevo rischiare magari di mettere nei guai quello che era stato in cella prima di me». Nel frattempo, il giovane da cui dovrebbe carpire la verità sulla strage continua a disperarsi nel suo dolore.

«Era cattolico fino all’inverosimile, piangeva, era un po’ disorientato, si capiva che lui soffriva molto per questa storia, non capiva nemmeno bene di che cosa era imputato – continua a dire -. Debole di carattere sicuramente, influenzabile al 99 per cento, mi è dispiaciuto di tutto quello che gli è successo, lui di me si fidava e io lo tranquillizzavo. Ci sono due tipi di detenuto: uno che ha commesso il reato e capisci subito che è colpevole, cioè capisci se piange perché ha rimorso di quello che ha fatto; e poi quelli come lui…uno che fa una strage e si comporta in quella maniera si capiva solo guardandolo che non c’entrava niente». Chiusa quella breve parentesi, Pipino sente di doversi sfogare con qualcuno. E, a distanza di anni, lo fa con l’amico giornalista Maurizio Danese, sentito anche lui dai giudici di Caltanissetta il mese scorso. «Gli ho detto che tutta questa storia era manovrata da La Barbera, che quello era un finto pentito manovrato dai Servizi segreti…una mia deduzione, all’epoca – dice ancora Pipino -. Credo di avergli detto tutto questo sette-otto anni prima che parlasse Spatuzza. Con lui mi confidavo, infatti lui non ha mai scritto cose su di me». 

Silvia Buffa

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