«Nino Gioè diceva che la strage di via d’Amelio l’avevano fatta quelli del vicinato, non so a chi si riferisse, se a quelli di Villagrazia o di Brancaccio. È andata a finire che Cosa nostra c’ha fatto un bel regalo allo Stato, o per lo meno, a quei soggetti che avevano paura che si scoprivano tantissime cose…Lo dico rispetto a quelli che erano venuti a trovarmi più volte in carcere e a quello che mi dicevano, al loro odio palese per il sistema Falcone e per tutti quelli che gli erano vicini, come Borsellino». A parte qualche piccolo dettaglio, Francesco Di Carlo sembra ricordare molte cose dei suoi anni trascorsi dentro Cosa nostra, e soprattutto di quello che accadde quando smise di farne parte. Affiliato un sabato pomeriggio del maggio 1961 alla famiglia di Altofonte, svolge per quindici anni la mansione di soldato semplice, nel ’70 diventa poi consigliere e cinque anni dopo capo famiglia. Ma dura poco: nel ’79 si dimette, «non mi piaceva più come si comportava il mandamento e alcune persone della famiglia, Bernardo Brusca era una vittima di Totò Riina, Bagarella andava girando sempre per vedere se c’era da ammazzare qualcuno, come fossero stati polli da macellare, non mi piaceva».
Resta comunque in Cosa nostra fino all’82, circa: due anni prima diventa latitante fino all’85, «ma comunque usavo sempre il mio nome, avevo a Londra un wine bar». Ha molto da raccontare ai giudici di Caltanissetta, che venerdì lo hanno sentito al processo a carico dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, che devono rispondere di calunnia aggravata, di aver avuto, in sostanza, un ruolo nella manipolazione e nella creazione del falso pentito Vincenzo Scarantino. Dall’omicidio di Roberto Calvi, dal quale ha sempre allontanato le accuse chiamandosi fuori, agli intrecci fra la P2 e Cosa nostra siciliana («non poteva succedere che entrasse la massoneria a Palermo e provincia. Ad Agrigento, Caltanissetta, Trapani magari sì, a Palermo no»). Fino ad alcuni suicidi/omicidi, come li chiama lui, come quello di Nino Gioè, boss di Altofonte trovato impiccato nel braccio di sicurezza di Rebibbia una notte di luglio del ’93, a pochi metri da Totò Riina, detenuto in una cella vicina. E quello anche del maresciallo Mario Ferraro, che la moglie trova impiccato nel bagno di casa. Nell’88 è lui che va a trovare Di Carlo nel carcere inglese di Full Sutton. È in compagnia di altri tre uomini, tutti legati al ministero inglese e ai servizi segreti: sono un certo Giovanni, Nigel e un altro italiano di cui inizialmente non capisce il nome.
Ci vorranno anni perché lo riconosca. Accade quando trova una sua fotografia pubblicata sul Giornale di Sicilia a margine di una notizia: si tratta di Arnaldo La Barbera. Prima di quell’incontro, «si era presentato insieme ai giudici Ayala e Di Lello, ma era rimasto fuori dalla stanza dell’interrogatorio – ricorda -. Aveva ammazzato un rapinatore, uno di Cosa nostra, in una sala da barba, non era una cosa normale un poliziotto che ammazza uno dei nostri. A meno che non hai rapporti con Cosa nostra e allora sei garantito, ma normalmente vieni punito, la pistola la può usare solo per altre cose ma non per uccidere, è regolamento di Cosa nostra, almeno quella di una volta». Nel 2002 va al suo funerale, nell’intento di ritrovare anche gli altri uomini con cui aveva parlato anni prima nel carcere inglese, ma non riconosce nessuno. Malgrado abbia ben impresse le loro facce e anche la loro precisa richiesta dell’epoca: «Volevano un contatto con Cosa nostra attraverso di me, perché Cosa nostra continuava a macinare omicidi, era morto anche Chinnici, volevano allontanare da Palermo Falcone e i suoi magistrati più vicini, il primo era Borsellino, loro due erano un’anima e un corpo, l’avevano con loro perché si erano fatti una squadra di polizia giovane, da De Gennaro a Manganelli, e non facevano più sapere niente ai capi, nello stesso tempo Falcone faceva tremare i polsi».
I visitatori italiani, tra cui c’è appunto la Barbera, raccontano a Di Carlo che Falcone «era un pericolo, lui e anche Borsellino». Per questo cercano quel famoso contatto. «A quei tempi la Sicilia era controllata da Cosa nostra centimetro per centimetro, qualunque cosa fatta da chi non era di Cosa nostra lo venivamo a sapere, un omicidio in Sicilia poteva farlo solo Cosa nostra, perché se lo fa uno che non ne fa parte si cerca subito ‘pa ammazzarlo, la polizia a Palermo lo sapeva, lo sapevano tutti, carabinieri, servizi segreti, tutti. Il colonnello Russo è stato ammazzato perché durante il tentativo di prendere un estorsore ad Altavilla, aveva per sbaglio ucciso un suo collega carabiniere, ma poi aveva dato la colpa di quell’omicidio al presunto estorsore che non c’entrava niente, non è stato onesto. Quindi doveva essere punito». L’obiettivo sembra, perciò, quello di allontanare a tutti i costi Falcone e i suoi uomini più vicini, «anche screditandoli. Mi ricordo delle lettere anonime che parlavano male di Falcone e della voce messa in giro da Cosa nostra che quella bomba all’Addaura se l’era messa da solo». Che fine ha fatto il contatto precedente? «Mi dissero che prima c’era Saro Riccobono, ucciso nell’82, che aveva una certa amicizia con Bruno Contrada. Per questo il nuovo contatto, ma non doveva essere un pivello».
«Ma Cosa nostra non fa niente per niente», sottolinea Di Carlo. Intanto, se lui dal carcere si fosse adoperato per dare loro una mano, in cambio avrebbe ottenuto un riavvicinamento con l’organizzazione mafiosa. «Ma io tutto questo piacere di rientrare non ce l’avevo, mi ero sentito così libero a non avere più a che fare con queste cose, con questi soggetti. “Non siamo per arrestare”, mi dicono però i quattro, “noi abbiamo interessi in altre cose, dacci una strada giusta e ti promettiamo che i processi vanno bene, se no non avete scampo con questi magistrati”. Allora, ho fatto uscire una lettera indirizzandola all’ufficio a Roma di Ignazio Salvo. La mia mediazione avrebbe avuto una sorta di compenso dal punto di vista della mia libertà». Fino a che, anni dopo, Di Carlo non rincontra Nigel: «”I tuoi paesani ti volevano fare fuori, io ti ho salvato la vita” mi dice lui. A me non è che questa cosa mi calava – racconta il teste -. Per tanti anni mi sono chiesto come potevo ammazzarli a quei tre, visto che mi volevano far fare il bagno dall’elicottero».
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