Via D’Amelio: la ritrattazione di Scarantino a Mangano «Solo io diedi la notizia, su di me macchina del fango»

È il 26 luglio del ’95, è ancora mattina presto quando Angelo Mangano, giornalista che all’epoca lavora nella sede palermitana di Italia 1, riceve una chiamata precisa dal suo direttore, Paolo Liguori. «Ero ancora per strada, non ero ancora arrivato in redazione in via La Malfa, che già c’era una storia su cui lavorare subito», racconta oggi a Caltanissetta, al processo a carico degli ex agenti del gruppo Falcone-Borsellino Mario Bo, Matteo Ribaudo e Fabrizio Mattei. A mettere tutta quella fretta è un dispaccio dell’Adnkronos: Vincenzo Scarantino aveva ritrattato le accuse con una telefonata ai familiari. La fonte era l’avvocato Petronio, all’epoca difensore del finto pentito di via d’Amelio. La notizia è eclatante e va subito verificata. «Chiamai la segreteria del procuratore Tinebra, ma mi dissero che era impegnato e che comunque nessuno era in condizione di poter smentire o confermare quella circostanza – racconta Mangano -. Feci la stessa cosa col gruppo Falcone-Borsellino della mobile di Palermo, sapevamo che Scarantino era gestito da loro, ma anche lì buco nell’acqua, La Barbera era impegnato».

Intanto, in tarda mattinata arrivano altre due agenzie di stampa: un’Ansa sulla smentita della procura di Caltanissetta e, subito dopo, un’altra Ansa del ministero dell’Interno, che in egual modo smentiva quella ritrattazione di Scarantino. «Ho pensato subito che valeva la pena andare a fondo». Perciò, in accordo col direttore a Milano, va insieme a una troupe alla Guadagna, a casa Scarantino. Dove la madre del finto pentito li accoglie con inusuale disponibilità, prestandosi anche alle riprese dentro l’abitazione. «La signora mi fece entrare e mi fece sentire una registrazione fatta con un vecchio registratore a nastri poggiato sulla cornetta del telefono, immaginate anche come parlava Scarantino». È ormai il primo pomeriggio di quel 26 luglio. «La registrazione non era chiarissima, ma dissi che se lui avesse richiamato a casa, di dirgli di cercarmi se avesse voluto parlare con un giornalista, e lasciai il mio numero – racconta -. La madre era contenta, voleva che si sapesse che lui aveva ritrattato, la famiglia voleva la sponda della stampa ma credo che mai nessuno chiese loro un’intervista». Nemmeno il tempo di uscire da quella casa e rimettersi in cammino verso la redazione, che squilla il suo telefono. «Scarantino mi contattò immediatamente, voleva parlare, ma con quel telefono non potevo registrare, quindi gli diedi il numero del centralino della sede palermitana di Mediaset. Arrivato lì, ho avvisato subito la sala rwm. E lui chiamò. Sapeva che quella telefonata sarebbe stata registrata».

All’epoca Mangano non seguiva il processo Borsellino, di cui sapeva quello che scrivevano i giornali. Ma scegliendo di andare a casa Scarantino sa di andare a colpo sicuro. «Io abitavo a ridosso dello stesso quartiere di Vincenzo Scarantino, la Guadagna, stavo in via Oreto nuova, avevamo anche parlato un paio di volte. Dal punto di vista giornalistico quella era infatti una storia che non mi convinceva – spiega -. Alla Guadagna c’era un alimentari molto ben fornito, lui stava lì davanti in piazza a vendere le sigarette di contrabbando». Negli anni ’80 scambiano qualche parola in un bar, ma niente di più. Parlano in maniera più ampia per la prima volta quel 26 luglio: «Aveva un modo di esprimersi poco chiaro, era molto agitato – ricorda Mangano oggi -. Siamo rimasti un po’ a conversare fino poi a iniziare la registrazione. Subito gli chiesi di questa sua intenzione di ritrattare: mi confermò che aveva detto delle bugie accusando delle persone innocenti. Chiesi perché. E lui mi parlò del carcere di Pianosa, lo avevano torturato, usò tutta una serie di termini, “mi fecero urinare sangue, mi facevano iniezioni di penicillina”. Siamo rimasti a parlare altri quindici minuti. Chiesi chi gli aveva fatto quelle cose, lui disse “La Barbera”, “ma chi, il questore?”, “Sì”. Giornalisticamente a me bastava quello, quella registrazione era abbastanza, non chiesi altro».

Da parte degli altri colleghi, però, non c’è nessun fermento quella mattina, «io mi sono stupito di essere stato l’unico giornalista ad andare a casa Scarantino, dove la madre era a disposizione, una cosa che non capita spesso». Finita la registrazione, il portatile del giornalista comincia a squillare, il numero è quello della questura. «Metto subito in relazione il fatto che Scarantino mi avesse chiamato e il fatto che fosse possibile che il suo telefono fosse sotto controllo. Ero ancora in sala rwm, in redazione. Decisi di non rispondere. Nemmeno dieci minuti dopo il centralinista della sede mi chiamò per dirmi che mi cercava Arnaldo La Barbera, ho lasciato detto che ero il sala rwm per preparare un servizio per la sera. Ormai erano le 16, i tempi erano stretti». Mangano continua a montare e il servizio va in onda qualche ora dopo, dando la notizia della ritrattazione di Scarantino, con la sua conferma telefonica e le immagini girate a casa sua. Viene tagliata la parte in cui si indica come responsabile di quelle torture il capo della Mobile La Barbera, notizia che andava verificata.

A quella messa in onda, non segue nessuna reazione. L’unica telefonata che riceve Mangano è quella di un collega/maestro, Ciccio La Licata, che chiede conferma sull’intervista e informazioni su come avesse fatto a ottenerla. Il giorno successivo solo un paio di giornali nazionali danno spazio alla notizia, ma non in prima pagina. E poi c’è il pezzo di La Licata sulla Stampa: «Scarantino: su via d’Amelio ho mentito. Ma dietro la ritrattazione ci sarebbe la mano della mafia» è il titolo. «Io mi sono sentito crollare il mondo addosso, a scriverlo era stata una persona che mi conosceva, che sapeva come lavoravo, e che mi dava “dell’ufficio stampa di Cosa nostra – dice Mangano -. Questo articolo l’ho tenuto appeso sopra la mia scrivania per vent’anni, l’ho staccato solo quando sono arrivate le dichiarazioni di Spatuzza. Su di me è arrivato il fango. Con La Licata non c’ho più parlato, a me bastava sapere che avevo la coscienza pulita su come avevo lavorato. Ma sono stato lasciato solo in modo scientifico, i colleghi non mi parlavano più».

Intanto, il 27 luglio ’95 Mangano manda in onda un secondo servizio sulla vicenda, questa volta concentrandosi sulle torture inflitte a Scarantino nel carcere di Pianosa. Quel giorno, poco prima di allontanarsi dalla città per dieci giorni per delle ferie forzate concordate con la redazione e l’’ufficio legale di Mediaset, passa da casa e il portiere gli riferisce che la sera prima erano andati a cercarlo lì tre poliziotti in borghese che, senza esibire alcun tesserino o altro, avevano fatto alcune domande su di lui: «Erano venuti a chiedere informazioni su di me, su mia moglie, volevano sapere in quale scuola insegnava, e altre cose sui miei figli che all’epoca avevano cinque e tre anni. Questa cosa sembrò strana al portiere, tanto che mi disse che “sembravano più dei rapinatori che dei poliziotti”». Al rientro dalle ferie, scopre che tutte le cassette e quello che riguardava Scarantino era stato sequestrato per ordine della procura di Caltanissetta, anche se «non ho mai visto la relativa ordinanza, devono averla mandata direttamente a Milano – dice -. Ho scoperto anche che il master originale era stato portato via da due funzionari del gruppo Falcone-Borsellino che si erano presentati il 27, dopo la messa in onda dell’ultimo servizio. Non ho mai saputo chi fossero. Il dvd consegnato alla Dia conteneva tutto quello che riguardava Scarantino. Ancora oggi se chiamo l’ufficio Mediaset e chiedo di usare delle immagini di Scarantino vengo frenato, c’è un vincolo legale, non è cambiato nulla».

Anche se un tecnico disubbidiente a Milano decide di conservare una copia di quello che era andato in onda e poi sequestrato, salvandolo in un server offline. Un salvataggio inaspettato, riemerso solo vent’anni dopo, in occasione delle ricerche di un altro giornalista che sta seguendo le fasi del Borsellino quater. Vent’anni durante i quali Mangano continua a fare il giornalista, malgrado il sostanziale stato di isolamento generato da quei servizi mandati in onda nel 1995. I magistrati lo ascoltano per la volta nel 2013, dopo ben diciotto anni, ma il giornalista non entrerà mai in un’aula di giustizia per testimoniare. Ad ascoltare nel dettaglio il suo racconto riguardo quell’intervista telefonica è stata anche la Commissione regionale antimafia presieduta da Claudio Fava.

Silvia Buffa

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