«O i servizi segreti non hanno saputo fare il proprio mestiere oppure c’era dell’altro». Le parole, pesanti, sono state pronunciate oggi dal pubblico ministero Stefano Luciani nella requisitoria del processo di primo grado sul depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio. Alla sbarra ci sono i poliziotti che facevano parte del gruppo investigativo Falcone-Borsellino guidato da Arnaldo La Barbera, deceduto a inizio anni Duemila. Al centro del processo ci sono le attività coordinate dalla procura di Caltanissetta, a partire dall’indomani della strage che portò alla morte del giudice Paolo Borsellino e di quasi tutta la sua scorta. Volto principale di quel depistaggio è quello di Vincenzo Scarantino, piccolo malavitoso della Guadagna, che per circa tre lustri è stato ritenuto attendibile nonostante già pochi anni dopo la strage avesse dichiarato di avere accusato della strage persone che non c’entravano nulla.
Attorno alle dichiarazioni di Scarantino e all’attività investigative che individuarono in lui l’uomo che aveva rubato l’auto che sarebbe stata fatta saltare in aria ancora oggi aleggia un grande punto interrogativo. «È impensabile che i servizi di informazione, facendo il loro mestiere, cioè acquisire informazioni sul territorio, non avessere saputo o compreso o capito che Scarantino era uno ‘scassapagliaro’ di modestissimo spessore criminale – ha detto Luciani in aula – o eravamo nelle mani di persone che non sapevano fare il proprio mestiere. Visto che non hanno dato alcun apporto di tipo informativo su fatti gravissimi come le stragi o, ripeto, c’era dell’altro».
Sulla strage di via D’Amelio si sono già celebrati quattro processi, quello in corso è il quinto a essere strettamente correlato a quei fatti. «È assolutamente provato in questo processo, ma lo era già al Borsellino quater di un a dir poco anomalo coinvolgimento del Sisde nelle primissime attività di indagini che hanno riguardato la strage di via D’Amelio», ha rincarato la dose Luciani. Il coinvolgimento dei servizi segreti, nelle figure di Bruno Contrada e Lorenzo Narracci, rappresentano un altro mistero. Sulla carta, infatti, i servizi d’informazione non avrebbero dovuto occuparsi direttamente delle indagini.
Nel corso della requisitoria, l’accusa ha parlato anche di La Barbera. Il dirigente della polizia mandato a Palermo per occuparsi delle indagini. «La figura di Arnaldo La Barbera è una sorta di Giano bifronte, il dirigente della Squadra Mobile di Venezia trasferito a Palermo per risolvere i problemi, diciamo il personaggio giusto al posto giusto nel momento giusto», ha detto Luciani. La Barbera era uomo noto ai servizi. «La familiarità di Arnaldo La Barbera con i servizi segreti emerge in maniera chiara attraverso i suoi rapporti con il prefetto Luigi De Sena – è andato avanti Luciani – Il Sisde era solito erogare somme di denaro verso i funzionari che si occupavano di eversione o criminalità organizzata. Che un ufficiale di polizia giudiziaria prenda fondi riservati in nero per soddisfare sue esigenze di vita privata, rende quel soggetto più o meno compromesso rispetto a quegli apparati che lo foraggiano?»
«Non si tratta – è intervenuto il capo della procura Salvatore De Luca in merito all’accusa rivolta agli imputati di essere responsabili di calunnia con l’aggravante mafiosa – di una frattura rispetto al passato bensì di una lenta e costante evoluzione che ci porta oggi a contestare la sussistenza dell’aggravante di mafia. Il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza. Tutti sapevano che Scarantino era un personaggio delinquenziale di serie C. Parlare di questo gigantesco, inaudito, depistaggio solo per motivi di carriera del dottore La Barbera, è la giustificazione aggiornata e rimodulata classica di Cosa nostra».
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