Via d’Amelio, il racconto dell’ex moglie di Scarantino «Subiva di tutto, i poliziotti lo stavano ammazzando»

«Ho cercato di rimuovere tutto, per proteggermi, per non farmi del male». Ma i ricordi di Rosalia Basile sembrano, malgrado gli oltre 20 anni trascorsi, ancora lucidissimi, mentre parla protetta dal separé bianco nell’aula di Caltanissetta in occasione del processo contro i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo accusati di calunnia aggravata. Ascoltata in qualità di ex moglie di Vincenzo Scarantino, del loro rapporto ha raccontato luci e ombre, dalla fuitina nell’84 quando lei ha soltanto 16 anni al coinvolgimento nelle indagini sulla strage di via d’Amelio. «Io ero una ragazzina ingenua all’epoca, lui fu il mio primo fidanzato e poi marito, io pendevo dalle sue labbra. Lui era geloso anche senza che ce ne fosse motivo, ancora oggi ne pago le conseguenze, perché non riesco a stare serenamente affacciata al balcone, lui all’epoca mi diceva “chi stai faciennu affacciata?”, e ancora oggi non riesco a restarci per troppo tempo. Un soggetto un po’ psicopatico, insomma». Avviano le pratiche di separazione nel 2001 e tre anni dopo arriva ufficialmente il divorzio, ma di quegli anni vissuti tra un carcere e l’altro, ricorda bene molti dettagli. «Ci siamo sposati nell’86 in Comune. Ma dopo otto anni e quattro figli, tra i tanti alti e bassi, i litigi e le scenate di gelosia, lui fu arrestato per il furto della 126 usata nella strage. Da lì iniziano tutti i guai», racconta la donna. Ricorda bene tutti gli spostamenti del marito da quel momento in poi: trascorre alcuni giorni a Termini Imerese, poi passa dei mesi a Venezia, poi a Busto Arsizio e dopo a Pianosa, dove si trova quando ha iniziato a collaborare.

«L’ho incontrato a Venezia, era dimagrito tantissimo, piangeva, era disperato, diceva che lui non c’entrava niente con la strage di via d’Amelio», ricorda oggi in aula la donna. I due, a colloquio, parlano di molte cose. Scarantino, ad esempio, le avrebbe raccontato anche di Vincenzo Pipino, un detenuto che gli avrebbe messo vicino Arnaldo La Barbera: «Erano sue immaginazioni, non aveva dati certi, diceva che era colpa di quel poliziotto, che glielo aveva messo lì apposta per farlo parlare, per farlo collaborare». Conosce bene anche il nome di Francesco Andriotta: «Mi parlò di lui – dice -, dovevano fare tutti e due la stessa mansione, diciamo così. Dovevano inventarsi che tutti e due c’entravano con la strage. Scarantino diceva di chiamare Giovanni Vecchi a testimoniare, era un vicino di cella, perché aveva sentito, sapeva che lui non c’entrava nulla e che Andriotta stava quindi mentendo. Stavano sempre a provarci, per farlo collaborare tra virgolette, erano dei poliziotti, lì a Pianosa». L’ex moglie infatti va a trovarlo anche lì: ci va la prima volta accompagnata dal fratello, ma non li lasciano entrare. Un episodio che i poliziotti avrebbero raccontato allo stesso Scarantino, a detta della donna, dicendogli che la moglie era andato a trovarlo con un uomo di bell’aspetto e con una bella automobile, quasi a voler insinuare in lui dei dubbi su di lei. «Gli mettevano cose in testa, gli facevano delle pressioni psicologiche assurde, avevano davanti un soggetto fragile. Lui era molto geloso, praticamente è uscito pazzo». A Pianosa ci torna un altro paio di volte.

«Prima dell’arresto pesava più di cento chili, ma già a Venezia trovai la metà della persona che lui era – racconta ancora -. A Pianosa lo trovai con la barba incolta, gli occhi strani, sembrava un animale, era proprio irriconoscibile – prosegue -. Lo minacciavano anche di morte, dicevano che se lui non collaborava gli facevano fare la stessa fine di un certo Gioè (Antonino ndr), un ragazzo ucciso in carcere. Era Arnaldo La Barbera che gli faceva questi discorsi». Scarantino avrebbe raccontato all’ex moglie di aver subito «maltrattamenti di ogni tipo, fisici ma anche psicologici, gli dicevano che io lo tradivo – dice oggi in aula -, gli mettevano vermi nel cibo e quindi lui non mangiava più, lo picchiavano, tutte queste cose gliele facevano i poliziotti. Mi disse anche che lo avevano portato dal dentista e che gli fecero capire che se non avesse collaborato gli avrebbero messo una cosa per fargli prendere l’Aids». Ascoltate queste confidenze del marito, la donna resta basita. Vorrebbe aiutarlo, fare qualcosa per tirarlo fuori da quella situazione. «Scrissi a tutti, al presidente della Repubblica di allora, andai anche a Roma per tentare di parlare col Papa. Sono andata anche a Cinecittà per fermare Funari (Gianfranco, conduttore televisivo autodesignato tribuno del popolo, ndr) e parlare con lui ma non ci sono riuscita, sono andata persino sotto casa di Agnese Borsellino per dirle che mio marito lo stavano ammazzando e che non c’entrava niente…è sceso un signore in portineria, disse che non era il caso di parlare con loro, non se la sentivano, erano in lutto».

La donna si preoccupa ancora di più quando Scarantino le anticipa che ha deciso di collaborare coi magistrati. È giugno del 1994. «Gli ho detto che era una pazzia, perché lui non c’entrava niente. Io l’ho sempre saputo che lui era innocente, sin dall’inizio – ripete ora a più riprese -. Figurarsi che per il sopralluogo all’officina Orofino lui non sapeva manco dove fosse il posto, glielo avevano dovuto indicare col dito i poliziotti». Ma perché allora decidere di collaborare? «Perché era stato minacciato dai poliziotti, per le botte, per quello. Ma successivamente – aggiunge – gli dissero anche che comunque era tutelato, che gli avrebbero dato dei soldi e che alla famiglia ci avrebbero pensato loro, frasi che gli avrebbe detto La Barbera, era lui che comandava. Oggi non riesco neanche a pronunciare il suo nome, ho avuto anche un diverbio con lui. Sapevano che persona era Scarantino, un debole, uno che si faceva convincere». Intanto, a Pianosa il detenuto non viene mai lasciato un attimo dagli uomini del gruppo Falcone-Borsellino, rimasti lì anche dopo la sua decisione di collaborare: «Credo per farlo stare tranquillo. Lui non era stabile, era un po’ psicopatico, aveva alzato le mani anche con me, era un tipo ansioso, un soggetto molto particolare».

Poi la coppia sperimenta la vita sotto protezione. Cambiano spesso posto, da Firenze passano a Jesolo, poi Torino e Biella. Il periodo di permanenza più lungo lo trascorrono a San Bartolomeo a mare, dove la famiglia vive chiusa in casa con i poliziotti sempre fuori. È il ’95, Scarantino è in regime extra carcerario, poteva uscire solo per parlare con i magistrati o per testimoniare. «Ogni 15 giorni c’era una squadra nuova, in genere formata da due poliziotti e una poliziotta – racconta Basile -. Quelli del gruppo Falcone-Borsellino si occupavano di portare i bambini a scuola la mattina, poi andavano a pranzare, non è che stavano in casa con noi, poi tornavano e si allontanavano di nuovo a ora di cena. A volte tornavano anche dopo cena, ma pochissime volte, quando al mio ex venivano i cinque minuti e i rimorsi di coscienza…sapeva che in carcere c’erano persone innocenti, stava male, era sempre agitato, faceva star male tutti. Stava sempre a parlare con i magistrati, li chiamava sempre quando stava così. Stavamo sotto protezione, quindi per me era normale che tutti quei poliziotti stessero lì fuori casa nostra, che mi accompagnassero ovunque, pensavo forse per noi. Dopo le botte ricevute dal poliziotto Bo la situazione è un po’ cambiata, i poliziotti erano del posto, ma c’era sempre la scorta fuori, ma non erano del gruppo Falcone-Borsellino».

È a questo punto che la donna sembrerebbe tirare in ballo i tre poliziotti oggi a processo con l’accuso di aver avuto un ruolo nella creazione ad arte e nella manipolazione del finto pentito Scarantino. In una missiva inviata a Caselli parla degli agenti di polizia Michele e Fabrizio: «Del primo non ricordo bene nome e volto, se all’epoca scrissi così ero sicura. Del secondo ricordo proprio la faccia, era uno con l’accento romano e barba e capelli rossi. Stavano lì con lui a farlo studiare, diciamo – racconta -. C’era un raccoglitore con dei fogli credo processuali, dei verbali, erano un bel po’, stavano lì a studiarsi tutta la cosa. Gli consigliarono anche, in caso non si fosse ricordato qualcosa perché troppo agitato, di prendere degli integratori. Io gironzolavo in casa, facevo il caffè, vedevo cosa facevano». È il ricordo che Rosalia Basile ha di questi poliziotti insieme a Scarantino. «Sembrava un film, lui mi diceva che non sapeva niente e che erano loro a mettergli in bocca le cose da dire. Mi disse che i poliziotti sapevano cosa stavano facendo, che lo stavano preparando. Credo sia durato tutto una settimana. Stavano lì a farlo studiare per prepararlo a testimoniare al processo Borsellino».

Una situazione non semplice, dato che Scarantino «parlava solo in dialetto» e non mostrava miglioramenti malgrado le lezioni che gli sarebbero state impartite per ripetere bene quanto stabilito. Meno incerti i ricordi dell’ex moglie su Mario Bo, che vede per la prima volta poco dopo l’ultimo incontro avuto con Vincenzo Ricciardi, che «faceva le veci di La Barbera quando questo non c’era». «Per me era come se Bo avesse preso il suo posto, anche perché poi Ricciardi non lo vidi più. Bo veniva a San Bartolomeo al mare – racconta -. Era venuto anche prima delle botte al mio ex, un paio di volte, per parlare con lui, sempre per cose processuali o per qualche interrogatorio coi magistrati. I loro colloqui avvenivano in disparte, io non ho mai assistito. Mi pare che ci fosse proprio lui quando hanno iniziato a fare questa specie di studio, venne la prima volta, ha parlato coi suoi ragazzi e poi è andato via». Che la donna abbia inconsapevolmente assistito coi propri occhi alla cosiddetta vestizione del pupo?

Silvia Buffa

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