Via d’Amelio e il ritorno in tribunale di Scarantino «Ero a rischio, ma mi facevano dormire coi mafiosi»

«Voglio rispondere». Sono queste le primissime battute pronunciate da Vincenzo Scarantino, a pochi minuti dal suo ingresso nell’aula bunker del carcere di Caltanissetta. «Sono stato arrestato il 26 settembre 1992, assieme a mio cognato Salvatore Profeta, solo che lui alla mezzanotte lo hanno messo fuori mentre a me mi hanno trattenuto in questura». L’imputazione è per strage, ad accusarlo sono Salvatore Candura e LucianoValenti, creduti da Arnaldo La Barbera, Ricciardi e Mario Bo. Il suo racconto parte da lontano, dal giorno dell’arresto, per aprire poi delle parentesi anche alla sua vita precedente alla strage di via d’Amelio. Racconta con quella voce oggi roca, che lo fa sembrare quasi più anziano dei suoi 55 anni, mentre in silenzio lo ascoltano da una parte Fiammetta Borsellino, dall’altra Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di aver avuto un ruolo nella creazione di quel finto pentito che oggi parla dietro a un separè bianco. È il 15 settembre del 1998 quando arriva la sua ritrattazione ufficiale, a Como, durante il Borsellino uno. «Fino a prima di ritrattare io ero una persona libera. Poi mi hanno chiuso in caserma, a me e alla mia famiglia».

Prima ancora c’era stata l’intervista rilasciata al giornalista di Mediaset Angelo Mangano. «Io dicevo sempre che ero innocente ma non ero mai creduto – ripete oggi. Per me sentire Spatuzza che diceva “Ma chi sei?”, che mi scagionava, era una cosa mi….non lo so…», e non trova le parole. Gaspare Spatuzza infatti inizia a dire che il finto pentito in realtà non aveva nessun rapporto con la strage di via d’Amelio. Le sue dichiarazioni risalgono al 2008 ma Scarantino aspetta fino al 2009 prima di ritrattare e dire che la sua collaborazione era falsa, e in mezzo ci fu anche un confronto con Candura. Perché aspettare tutto questo tempo? «Sono stato tanti anni in carcere, per me era impossibile che si cercasse la verità, non mi fidavo completamente», racconta. Prima di essere accusato di aver fatto saltare in aria il giudice Borsellino e gli agenti della sua scorta, Vincenzo Scarantino era un picciotto della Guadagna che vendeva sigarette di contrabbando. «Avevo una decina di bancarelle e dei ragazzi che mi vendevano le sigarette, incassavo sette-otto milioni di vecchie lire, ma io guadagnavo poco, 500mila lire circa. Ma c’erano sempre i blitz della finanza e mi toglievano tutto, mi sequestravano anche 25 casse di sigarette, cioè 25 milioni, allora per poterle pagare vendevo l’erba o l’hashish o facevo qualche passaggio di eroina, ma non era un’attività frequente».

Nel suo curriculum criminale c’è anche qualche smontaggio di auto rubate, «i carabinieri già a 15 anni mi avevano arrestato – racconta -. Io c’avevo una 126 bordeaux rubata, lo stesso colore di quella di mia sorella, l’ho portata a Piano Stoppa e lì l’ho smontata tutta e l’ho rimontata su quella di mia sorella, e i resti li ho buttati a Belmonte Mezzagno. C’era un ragazzo di corso dei Mille che ogni tanto mi portava qualche macchina». Con Cosa nostra, però, non avrebbe mai avuto a che fare. Non in prima persona almeno. «Sapevo che mio cognato apparteneva alla mafia, tutti lo rispettavano, si faceva volere bene da tutti, non era scortese con nessuno, è stato arrestato tante volte per cose di mafia». Ma dalla sua vita alla Guadagna alle prigioni di mezza Italia il salto è breve, e subito il pm Luciani torna a chiedere a Scarantino della sua detenzione e, soprattutto, dei suoi compagni di cella. Uno fra tutti, Vincenzo Pipino. «Appena è arrivato questo ha portato cioccolati, caramelle, mentre io stavo facendo lo sciopero della fame… Io ho continuato il mio sciopero perché volevo parlare coi magistrati».

«Quando mi hanno arrestato è stata una cosa molto dolorosa, pesante, molto forte – racconta ancora -. Pipino mi chiedeva di continuo perché ero stato arrestato, io rispondevo che era per la strage di via d’Amelio. Ma lo sapevo che pure lui era uno spione di La Barbera». A rivelarglielo sarebbe un altro detenuto, lì a Venezia. Si tratta di un certo «Dario Carrera, un ragazzone di un metro e ottanta, grosso cento chili coi ricci neri. Quando Pipino era giù per fare i colloqui, questo che all’epoca era solo un ragazzo dalla cella di fronte alla mia mi diceva questo, che era uno spione». Ma anche lo stesso Pipino, dopo un po’, inizia a metterlo in guardia: «Anche lui mi diceva “Stai attento, perché dove vai vai devi dire solo sono colpevole di essere innocente”, l’unica cosa che ho memorizzato è stata questa, e io l’ho ripetuto sempre – spiega Scarantino -. Lui non diceva né di accusarmi né di dirmi innocente, mi ripeteva sempre quella frase. Lui parlava di La Barbera, mi diceva qualche cosina, oggi non mi ricordo più. La cosa era troppo grossa da affrontare, cercavo di stringere i denti, piangevo tanto perché a me mi mancavano i bambini e la mia ex moglie».

C’è poi il capitolo di Busto Arsizio. «Sono stato per mesi da solo, senza televisione, senza niente. Ma anche lì c’erano altri Pipino – rivela -. Mi ricordo che io ero messo là, in isolamento, per motivi di sicurezza, perché i mafiosi potevano ammazzarmi, però mi hanno messo vicino Domenico Benforte, che era un capo della camorra che poi ha collaborato con la giustizia, e anche lui era sempre ripetitivo, mi chiedeva sempre perché ero in galera». C’è anche Salvatore Coniglio, uno che «passava sempre dalla mia cella, lui si voleva avvicinare, era già collaboratore di giustizia, stava nella cella di fronte. Io lo sapevo che erano tutti pentiti, li salutavo, tanto a me non cambiava niente». è una circostanza, questa, che a distanza di anni lo lascia molto perplesso. Se era davvero così a rischio, tanto da tenerlo isolato, perché circondarlo di queste presenze? «Oggi posso dire che mi volevano mettere quella pressione di paura, secondo me, perché tutti mi parlavano di lui, di La Barbera, mi dicevano di stare attento, e io questa cosa me la sono portata dietro». È una paura, la sua, che a tratti sembra emergere ancora oggi. A mettergli queste pressioni, all’epoca, ci sarebbe stato anche Francesco Andriotta: «Io non gli davo confidenza, non gli ho mai fatto confidenze, lui era un bugiardo, le cose che ha detto non erano vere – dice subito -. Dopo il colloquio col prete fece gli interrogatori coi magistrati, ricordo che tornò in cella piangendo e dicendo cose brutte su chi lo aveva interrogato, diceva che lo avevano accusato per 250 grammi di droga, e io lo tranquillizzavo, gli dicevo che se era innocente sarebbe venuto tutto a galla. Poi quando sono tornato a Palermo questa stessa accusa me la sono ritrovata io, accusa per cui sono stato condannato a nove anni. Secondo me questo prete in realtà era La Barbera, parlava con lui».

Di quel periodo di detenzione Scarantino sembra conservare parecchi ricordi. Come il fatto di essere un «sorvegliato a vista». Mentre intorno a lui si davano il cambio detenuti che cercavano in tutti i modi di fargli dire qualcosa su quella strage. «Io non avevo nessun problema, parlavo con le guardie non con i detenuti, dicevo che ero innocente, che ero disperato, ma mi prendevano per pazzo. L’unica colpa che ho avuto è quella di non aver messo la museruola e di non essere stato muto come mio cognato, che lo è stato per diciotto anni, ma era carattere, non parlava nemmeno in famiglia». L’unico conforto, nei suoi racconti di oggi, era la preghiera e il percorso spirituale iniziato dietro le sbarre. «Ho chiesto dei favori ad Andriotta – ammette a un certo punto -, non ci vedevo niente di male, non pensavo che potesse girarsi e diventare che io gli avevo detto della strage e altre cose. Gli avevo chiesto solo se tramite sua moglie poteva chiamare al negozio di abbigliamento di un amico per dirgli di portare dei soldi a mia moglie, io con questo amico avevo investito 30 milioni di vecchie lire, non era una cosa illecita, era una negozio di abbigliamento in via Bandiera .Io mi sfogavo con la guardia, non con lui – ripete a più riprese Scarantino -. Ma tanto La Barbera c’era sempre, anche quando mi trasferivano da un carcere all’altro con la nave, lui era lì a bordo e nemmeno si nascondeva per non farsi vedere. Mi ripetevano tutti che ero una persona a rischio, mi potevano ammazzare, ma intanto mi facevano dormire con i mafiosi», insiste.

Ma tra i due, a suo dire, non ci sarebbe stata mai alcuna confidenza. «Segreti con Andriotta non ne avevo, lui non mi piaceva perché si vedeva che era uno spione, si vedeva che era sbirro pa acchiappare e che me l’avevano messo vicino apposta. Prima – ricorda ancora – mi avevano messo pure un altro ragazzo, un bombolaro, anche lui con l’ergastolo, ma è stato onesto e si è fatto trasferire subito, se n’è andato perché ha visto la mia disperazione». Ma le pressioni di Andriotta non sarebbero solo esercitate attraverso domande insistenti o distorte confidenze personali. «Mi diceva sempre che avrei fatto la fine di Nino Gioè. Ma io pensavo che mi sarebbero rimasti gli ematomi, che si sarebbe capito, perché prima mi avrebbero dovuto acchiappare. Ma lui rispondeva che mi avrebbero messo in un congelatore per fare sparire poi gli ematomi e farlo passare per un suicidio. Lui parlava attraverso il dottor La Barbera – dice convinto -. Allo stesso modo mi raccontava di un prete che era stato ucciso sempre in cella, gli avevano messo il bollito in bocca e lo avevano soffocato. Quando lo hanno trasferito mi ha detto “Ricordati di me”, con un’aria che sembrava voler intendere “ce l’ho fatta” e uno strano gesto con la mano. Pochi giorni dopo io sono finito a Pianosa».

Silvia Buffa

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