Via D’Amelio, al via processo per tre poliziotti accusati di calunnia «Dopo 26 anni si scrive la prima pagina giudiziaria sul depistaggio»

Concorso in calunnia. È questa l’accusa alla quale dovranno rispondere il funzionario Mario Bo, già capo della mobile di Trieste e della divisione anticrimine di Gorizia, poi distaccato ai servizi all’estero per la cooperazione internazionale di polizia, e i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Tutti presenti oggi a Caltanissetta per l’udienza preliminare del processo che li vede seduti sul banco degli imputati. Coinvolti a vario titolo nelle indagini per la strage di via D’Amelio, fecero parte della gruppo capeggiato all’epoca da Arnaldo La Barbera, capo della mobile e tra i primi a indagare sui fatti del 19 luglio ’92. E per i quali, a sorpresa, la procura chiede oggi anche l’aggravante al 416 bis comma 1 per condotta aggravata per aver favorito Cosa nostra, in riferimento all’ex articolo 7 dl 152/1991, che prevede appunto un aggravamento della pena per reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal 416 bis. Il clima è piuttosto agitato, in tribunale. Specie per la perquisizione avvenuta solo pochi giorni fa a casa del giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo, colpevole di aver dato notizia sulle pagine del suo giornale mesi fa della chiusura delle indagini a carico dei tre poliziotti rinviati a giudizio. Agli atti del processo ci sarebbero alcune prove in grado di dimostrare che uno degli imputati, Mattei, avrebbe dato degli appunti a Vincenzo Scarantino, il finto pentito tra i protagonisti assoluti dei processi celebrati sulla strage, imboccandolo su quello che avrebbe dovuto dire. Ammesse tutte le parti civili. 

«Certamente oggi verrà affrontata la fase della costituzione delle parti civili e, se supereremo questa fase già oggi, seguirà quella della competenza territoriale», commenta l’avvocato Mangano, che rappresenta Bo. Bocca cucita però sulla linea difensiva: «Troppo presto per parlarne. Certo, le accuse sono pesanti, possono prevedere pene fino a 20 anni per questo tipo di reato. Ma l’animo del mio cliente è quello di difendersi – spiega -. Spero che in questa vicenda qualcuno non rischi di pagare per altri». E a chi gli chiede del depistaggio, sembra tentennare: «Lo scopriremo. Noi ci difenderemo da quest’accusa. Il reato è quello di calunnia, quello di depistaggio non può essere contestato perché introdotto quando questi fatti risalivano già a più di vent’anni fa – dice ancora l’avvocato -. Oggi il mio assistito è chiamato a difendersi prospettando una linea difensiva che prenderà corpo durante il processo».

Intanto in aula è una sfilata di volti, a cominciare da Fiammetta Borsellino. Ma non manca ovviamente anche il cronista Palazzolo: «Mi ritrovo sotto inchiesta per aver dato la notizia di un processo, un processo che forse qualcuno voleva non si raccontasse – commenta -. Invece molti giornalisti sono qui a raccontare che uomini dello Stato, poliziotti, sono sotto inchiesta per avere costruito ad arte un pentito. Insieme a noi qualche familiare delle vittime, vedi Fiammetta Borsellino, che chiede verità. Familiari che come lei chiedono come mai in 25 anni non si è riusciti a fare luce su quanto è accaduto a Palermo. Fino a qualche giorno fa pensavo che un giornalista senza il suo archivio è un giornalista senza una gamba, poi però a poco a poco ho iniziato a ricordare particolari e dettagli dei misteri di Palermo e credo che tutti noi giornalisti continuiamo il grande racconto perché ci sono tante cose che ancora purtroppo non sappiamo su una stagione amara».

Non ci sono ombre sul suo volto: «Sono sereno – aggiunge infatti -, sono un cronista come gli altri, siamo qui ogni giorno per raccontare, mettiamo da parte quello che abbiamo dentro e cerchiamo di fare quello per cui siamo chiamati, raccontare una terra con tanta gente che chiede una giustizia e si impegna per cercarla questa giustizia, questo è il dovere di un giornalista, quello di raccontare». Tanta la solidarietà manifestata dai colleghi della stampa, in molti questa mattina partiti alla volta di Caltanissetta in rappresentanza della categoria, ma non solo. Tra loro anche Roberto Ginex, segretario regionale di Assostampa: «Solidarietà a Salvo Palazzolo, ma anche a tutti quei colleghi che sono impegnati nella ricerca della verità su ogni fronte – il suo commento davanti al tribunale nisseno -. Siamo qui per stare a fianco di Palazzolo, che evidentemente ha messo il dito in una piaga, in questa Italia appena si parla di stragi di Stato si cominciano a ipotizzare cose che forse hanno bisogno di essere scavate più a fondo e che, quando succede, fanno paura. La libertà di stampa oggi è in serio rischio, non è possibile entrare in questo modo nella vita di un giornalista, specie di uno rigoroso come lui, sequestrandogli computer e telefonino e perquisendogli la casa. La libertà di stampa è importante perché è garanzia per tutti i cittadini e noi siamo qui a difenderla strenuamente».

A difenderla c’è anche chi, quella stessa libertà di stampa l’ha pagata sulla propria pelle con una perdita indicibile. «Sono qui per dimostrare la mia vicinanza a un collega colpevole di aver fatto bene il suo lavoro – esordisce infatti Claudio Fava -. In un palazzo di giustizia in cui si giudica forse anche chi invece non ha fatto bene il proprio lavoro. Ma oggi finalmente si scrive la prima pagina giudiziaria di questo depistaggio dopo 26 anni…È cosa grave, da un lato, perché sono passati appunto ben 26 anni, è cosa importante dall’altro perché si riesce ad affrontare un furto di verità che si è trascinato per oltre un quarto di secolo. Occorre essere qui perché come Commissione Antimafia stiamo facendo un’indagine specifica su questo depistaggio, occorre essere qui però anche perché questo reclamo di verità appartiene a tutti, non solo a chi l’ha subito sulla sua pelle». E sul significato del mestiere di giornalista sembra avere le idee piuttosto chiare: «Ci sono norme, regole, forme che prevedono un contratto, un’iscrizione all’ordine, ma poi scopriamo che questo mestiere è fatto anche dalle gambe di chi un contratto non ce l’ha, di chi viene pagato tre-quattro euro ad articolo, e che magari non è ancora iscritto all’Ordine. Ed è interessante vedere come costoro non sono giornalisti ai sensi di legge ma lo sono per esempio per le organizzazioni criminali che li minacciano, penso a Mauro Rostagno e a Peppino Impastato. Penso ai tanti giornalisti che non sono considerati tali ma che fanno questo mestiere con passione, raccontandoci cose che altrimenti non sapremmo, rischiando querele milionarie. Credo che occorra farsi carico della loro solitudine e della precarietà economica che spesso sono costretti a pagare».

Ambra Drago

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