Cosa ci fa dell’olio d’oliva dei Monti Iblei in un’insalata a base di daikon? E cosa verrebbe fuori se nei dorayaki trovasse posto il cioccolato di Modica? Per non parlare della possibilità di mettere del caciocavallo tra gli ingredienti di un okonomiyaki. Questi quesiti di ispirazione fusion nascono dalla scommessa di Lucio Schembari, 33enne originario di Ragusa, che otto anni fa ha deciso di volare in Giappone, portandosi dietro un pezzo di Sicilia diventato via via sempre più grande e saporito. Residente in un piccolo villaggio situato sull’altopiano di Hiruzen, nella prefettura di Okayama, Schembari vive con la moglie – una giapponese conosciuta in Sicilia, dove era arrivata per studiare – e i due figli Vito e Dario, di sette e tre anni. È da qui che ogni giorno si sposta per andare in giro per il Paese del Sol Levante alla ricerca di nuovi clienti a cui fare conoscere i prodotti enogastronomici della terra d’origine. «Sono tutte materie che seleziono personalmente quando torno in Sicilia – racconta a MeridioNews -. Ci sono anche le acciughe e il tonno sott’olio, e di recente sto iniziando con il pistacchio di Bronte e le mandorle di Avola».
L’idea di diventare un commerciante di sicilianità è cresciuta piano piano. «Per un periodo l’ho accompagnata alla gestione della locanda aperta dai familiari di mia moglie. I nostri ospiti avevano modo di assaggiare i prodotti che facevo spedire dalla Sicilia e che andavo io stesso a prendere in aeroporto o al porto – continua il 33enne -. Poi quando abbiamo deciso di chiudere la cucina, in concomitanza della nascita del secondo figlio, ho iniziato a dedicarmi esclusivamente alla vendita. Soprattutto dell’olio, che resta il nostro prodotto di punta e che commercializzo con il marchio Oliva Sicula». Nonostante oggi la rete di clienti vada dai ristoratori specializzati e dalle catene, presenti nelle grandi metropoli come Osaka, ai mercatini nei parchi e ai punti vendita della provincia giapponese, la strada per inserirsi nel mercato orientale non è stata facile. «Un po’ per la propensione dei giapponesi a preferire le proposte dei connazionali e un po’ perché spesso hanno una conoscenza limitata dei prodotti e del loro uso – spiega Schembari -. Una delle più grandi difficoltà è far capire che lo standard di qualità dei nostri prodotti è alto. Per il giapponese medio, infatti, le parole miele, olio di oliva, salsa di pomodoro, formaggio vanno associati a prodotti industriali anonimi e privi di qualsiasi elemento organolettico e nutrizionale degno di nota. Ciò anche a causa – sottolinea il 33enne – dell’invasione, circa 40 anni fa, di prodotti occidentali di scarsa qualità». Resistenze che però giorno dopo giorno hanno iniziato a cedere. «Con il passare del tempo i miei clienti hanno imparato a fidarsi di me e di ciò che commercializzo, apprezzando l’impegno che ci metto».
Circa diecimila chilometri più a ovest, i problemi da affrontare sono diversi ma altrettanto importanti. «Per me è fondamentale il rapporto con i produttori in Sicilia, capire le loro difficoltà e aspettative ma, al tempo stesso, comunicare loro le esigenze che il mercato giapponese ha – racconta Schembari -. Parliamo di realtà diametralmente opposte, anche culturalmente, ma per fortuna lavoro soprattutto con persone a cui sono legato da tanto tempo e con cui c’è un’ottima sintonia». Tra gli aspetti che segnano una distanza tra Sicilia e Giappone c’è l’attenzione per il confezionamento dei prodotti. «In Sicilia quasi tutte le aziende danno un’importanza marginale al packaging a differenza di quanto accade con le tecniche e la passione applicate nelle fasi produttive. In Giappone, invece, il modo in cui un prodotto viene presentato è essenziale: un packaging curato, facile da usare, agli occhi del cliente giapponese è dimostrazione di professionalità, e ciò influenza le scelte dei consumatori anche a discapito del valore del prodotto. Un esempio? I giapponesi si lamentano sempre quando ci sono imperfezioni nelle etichette. Nel caso delle bottiglie d’olio, si aspettano ci sia un’illustrazione che spieghi chiaramente come aprire e usare la bottiglia senza macchiare la stessa etichetta».
Ma quello con la Sicilia resta un legame che va oltre gli interessi professionali. «Quando sono partito ho lasciato una terra che non mi stimolava, anche se poi ho capito che il problema principale era nel mio atteggiamento, nel modo che avevo di affrontare i problemi – ammette -. Per me, comunque, rimane il luogo perfetto dove rilassarmi, un luogo dove le relazioni vengono prima di tutto. In Giappone, invece, le persone non sono abituate a socializzare con chi non appartiene alla propria cerchia. È impensabile iniziare una discussione con qualcuno per strada». Al contempo, però, non mancano gli aspetti che i siciliani potrebbero acquisire dalla cultura giapponese. «Innanzitutto la pazienza, l’umiltà e il non auto-commiserarsi, cercando invece di fare qualcosa per migliorare la propria situazione, ma soprattutto – sottolinea Schembari – la capacità di ascolto. Ricordo che, le prime volte che ritornavo dal Giappone, dicevo a tutti i siciliani che i giapponesi sanno leggerti nel pensiero. In Sicilia invece la gente ha una bassissima capacità di ascolto e di attenzione verso i bisogni del prossimo, questo non fa che peggiorare la comunicazione e si riflette anche nel sociale. Basti pensare al poco rispetto per gli spazi pubblici, mentre magari si ha una cura maniacale della propria casa. In Giappone, invece, gli spazi pubblici sono ordinatissimi e le case piccole e disordinate».
Quando si parla di futuro, Schembari non si sbilancia, anche se nel cassetto un sogno c’è. «Mi piacerebbe trovare dei solidi collaboratori in Giappone a cui delegare alcuni aspetti del mio lavoro, così da premettermi di tornare in Sicilia almeno quattro mesi l’anno – rivela -. Ciò mi permetterebbe di restare più vicino ai produttori e conoscere ancora meglio ciò che dovrò presentare ai clienti. Soprattutto mi darebbe la possibilità di fare stare i miei figli il più possibile con i nonni e a contatto con la terra dove sono cresciuto». Riuscire a ritornare in pianta stabile nell’Isola? «Non so, sicuramente la prospettiva di tornare mi alletta ma per ora ho investito troppo in Giappone per abbandonare tutto. Tuttavia non escludo nulla anche perché – conclude il 33enne – ho sempre pensato che se riesco a vendere stabilente i miei prodotti in un mercato complesso come quello giapponese, potrei farcela anche con altri mercati esteri, magari partendo proprio da un investimento in un’azienda in Sicilia».
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