Vaccini, perché la Pfizer non può produrli a Catania Cisl: «Mancano strumenti, si fanno farmaci obsoleti»

Una provocazione. Che ha un senso se incardinata all’interno delle dinamiche per difendere i posti di lavoro, ma che rischia di ridursi a poco più di una boutade se la si immette nel flusso costante di informazioni circolanti attorno all’argomento che, da oltre un anno, monopolizza l’attenzione del mondo: il Covid-19. L’ipotesi che la Sicilia possa dare il proprio contributo nella produzione dei vaccini è al momento molto remota. Perlomeno se l’idea è quella, da qualcuno proposta quantomeno come quesito, di sfruttare lo stabilimento Pfizer di Catania, uno dei due presenti in Italia. 

L’azienda produttrice di uno dei due vaccini a Mrna attualmente in uso – l’altro è quello realizzato da Moderna – non è intenzionata a investire in Italia e i motivi sono tanti. «Lo stabilimento catanese – spiega a MeridioNews Giuseppe Coco, segretario generale di Femca Cisl – non è attrezzato per la produzione di vaccini. Si tratta di prodotti che richiedono una serie di strumenti che non sono presenti a Catania, dove si lavorano invece alcuni prodotti antibiotici». In tal senso attrezzare la sede etnea richiederebbe non poco tempo. «Credo che almeno due anni prima dell’uscita del primo prodotto finito passerebbero», aggiunge Coco. Per chi si chiedesse, allora, perché anche dal mondo sindacale di recente sia stata avanzata la proposta di sfruttare lo stabilimento siciliano, la risposta è semplice: «La nostra è stata una provocazione che poggia sulla consapevolezza che l’impianto a Catania continua a essere sfruttato per la produzione di alcuni farmaci antibiotici che potremmo definire obsoleti, in quanto – spiega il sindacalista – sul mercato ci sono prodotti simili a prezzi più convenienti». Il timore, da questo punto di vista, è che in futuro, a fronte di una minore richiesta del mercato, possano esserci riflessi sui livelli occupazionali. «Si tratta di farmaci che perlopiù vengono esportati negli Stati Uniti e in Asia, ma le possibilità che la domanda si contragga c’è», ammette il segretario di Femca Cisl.

Attualmente a Catania sono impiegati circa 850 lavoratori. Di questi, più di 600 hanno un contratto a tempo indeterminato, mentre la restante parte lavora con contratti a somministrazione. Ovvero, a fare da intermediario tra azienda e lavoratore è un’agenzia interinale. «Da un punto di vista dell’impiego, lavorano e guadagnano come gli altri – spiega Coco -. Anzi alla Pfizer costano di più, ma questo tipo di contratto consente al datore di lavoro di dismettere il rapporto non appena non si ritiene più necessario il contributo del lavoratore. Quindi a quest’ultimo offre decisamente meno garanzie. Anche per questo noi speriamo che la Pfizer si decida ad ampliare il proprio portafogli in Sicilia, lavorando da noi anche a prodotti più innovativi». La multinazionale, peraltro, ha già fatto sapere che non ha in programma di ampliare i punti di produzione attualmente attivi. «Ritiene che lo stabilimento in Belgio sia sufficiente, anche nella consapevolezza che presto arriveranno sul mercato altri vaccini», va avanti Coco.

Nelle scorse settimane, a parlare della possibilità di produrre vaccini anti-Covid in Sicilia sono stati anche i vertici del governo regionale. Dal presidente Nello Musumeci all’assessore alle Attività produttive Mimmo Turano. Il primo ha annunciato di voler comunicare la disponibilità al governo nazionale, il secondo ha fatto riferimento alla possibilità di sfruttare un bioreattore presente in una struttura universitaria palermitana e non ancora attivato. Più di una perplessità da parte dell’opposizione, con il deputato Nello Dipasquale che ha parlato di bluff. «Non credo sia un ragionamento che non possa essere fatto – commenta il segretario di Femca Cisl – specialmente nell’ipotesi che nel prossimo futuro potremmo nuovamente avere bisogno di vaccini anti-Covid, qualora si capisse che bisognerebbe effettuare periodici richiami. In questo senso, cercare di realizzare in Sicilia un centro di produzione che possa diventare di riferimento per l’area del Mediterraneo sarebbe un investimento, ma è un discorso che non ha nulla a che vedere – conclude Coco – con l’idea di riconvertire aziende esistenti ed essere immediatamente pronti a produrre dosi».

Simone Olivelli

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