V. Emanuele, medica aggredita al pronto soccorso «Picchiata perché non volevo essere connivente»

Un incidente d’auto, con a bordo una giovane donna e un bambino, un normale controllo al pronto soccorso del Vittorio Emanuele, nulla di grave. Una serata di routine per il personale sanitario che opera, giorno e notte, in uno dei reparti più critici della realtà catanese. Ma, complice la strumentazione radiografica rotta, gli accertamenti medici sui due feriti si trasformano in un’aggressione prima verbale e, poi, anche fisica al medico di guardia. Che in questo caso è una donna, dirigente medico della struttura, colpevole di aver seguito i protocolli e di aver imposto l’applicazione della normativa

È la notte di venerdì scorso. Superato il triage, il momento dell’accettazione e della registrazione, due pazienti, madre e figlio, vengono condotti all’interno del reparto dove vengono visitati e controllati da un medico in seguito a un incidente. Dopo la visita, il primo medico smonta, cioè finisce il suo turno, e viene sostituito dalla dottoressa Valeria (nome di fantasia, ndr). «Il bambino, dopo la visita, era stato dimesso perché non destava nessun segno di preoccupazione – spiega la professionista a MeridioNews – mentre la donna viene invitata ad aspettare i risultati della radiografia al collo che ha fatto poco prima». «A quel punto – continua Valeria – la signora mi dice di voler andare in Pediatria per fare controllare ulteriormente il bambino, ma io le dico chiaramente di non potersi muovere dal pronto soccorso, proprio perché in attesa dei suoi referti non è ancora chiaro il quadro clinico e le possibili conseguenze dell’impatto». 

Un invito che però la paziente decide deliberatamente di non ascoltare, allontanandosi «per più di mezz’ora dal nostro reparto». «Come previsto dal regolamento, scrivo sul referto che la signora “si è allontanata” dall’ambulatorio contro l’indicazione del medico. Non potendo sapere cosa fosse successo in quel periodo di tempo e non volendo rischiare conseguenze legali».  Al suo ritorno, la giovane madre dialoga con Valeria che le dice di aver incluso quella frase nel suo certificato, e – dopo averle diagnosticato un colpo di frusta – le due donne si salutano. Normalmente. «Dopo pochi minuti, però, entra nella mia stanza una signora sui cinquant’anni – racconta la dottoressa – la madre della paziente, insultandomi in malo modo, e dicendomi che devo assolutamente cambiare la dicitura sul referto. Al momento del mio rifiuto la signora inizia a urlare, nonostante ci fosse un’altra paziente anemica in stanza, che proprio per l’agitazione è svenuta». 

Il racconto, però, non termina qui. «La signora comincia a dare pugni e calci alla scrivania e a urlare a due millimetri da me. Le dico di calmarsi, “La smetta o chiamo la polizia“, le dico. Sentite queste parole la signora mi strappa il telefono di mano, il mio cellulare, e lo scaraventa contro il muro, rompendomelo». «Nel frattempo prende i fogli delle dimissioni che avevo dato alla figlia – continua Valeria – li accartoccia, e me li spinge con forza contro la bocca, dicendomi che me li dovevo ingoiare». Ma non solo. «Urlava frasi orribili come “Sbirra, io ti ammazzo, tu a domani non ci arrivi” e cose del genere». Le urla e il clamore della scena intanto non destano l’attenzione dei vigilantes presenti nell’ospedale che, nonostante i rumori, non intervengono per placare l’aggressione. «Riesco comunque a chiamare la polizia dal telefono fisso, dopo aver chiamato i carabinieri che mi hanno detto di non poter intervenire se non in caso di denuncia, cosa che farò sicuramente». 

Valeria è amareggiata. Oltre allo shock, non riesce a trattenere le sue riflessioni sul sistema sanitario pubblico e sulla sicurezza del personale che ogni giorno vi opera. «Ho fatto un dottorato di tre anni a Londra, uno italiano, e avevo un posto che mi avrebbe dato i milioni in Inghilterra. Proprio per andare contro la fuga dei cervelli però ho deciso di ritornare. Ma al prezzo di cosa? Per andare in un pessimo pronto soccorso, in una sanità pessima in cui nessuno pensa di dare il giusto peso a chi merita». E attacca duramente anche la gestione del suo reparto, colpevole secondo lei di «non tutelare il personale». «Trascorriamo le giornate non a lavorare, ma a difenderci dalla connivenza, dalle aggressioni, da gente che propone truffe. Vorrei capire perché non c’è un posto di polizia al pronto soccorso e soprattutto perché esistono storie del genere». Una questione di paura e silenzio rispetto alla delinquenza, secondo la dottoressa. «Da noi, al contrario di altri ospedali – conclude – questa gente passa perché infermieri e personale hanno paura. Io mi rivolgerò alle forze dell’ordine, non mi spavento, sono già stata aggredita. Queste cose mi succedono semplicemente perché vorrei che le cose andassero bene, voglio solo fare il medico, non fare esami inutili ed essere complice di queste persone». 

Mattia S. Gangi

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