«Non riesco a superare l’esame, il professore è stronzo». Una frase che da che mondo è mondo è passata dalla bocca di un numero imprecisato di studenti. A testimonianza delle difficoltà incontrate nel corso degli anni universitari, a denunciare le pretese, a volte eccessive, dei docenti. Queste parole, però, nella primavera dello scorso anno avrebbero dato il la a uno degli episodi ricostruiti nelle oltre 1200 pagine dell’inchiesta Rinascita-Scott, che ieri ha portato a un’ondata di arresti in Calabria. Oltre trecento persone fermate con l’accusa di essere legate o avere avuto rapporti con la ‘Ndrangheta. In particolare, con la potente famiglia Mancuso di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia. Un’indagine che ha portato alla luce le inquietanti relazioni tra politica, massoneria e criminalità organizzata.
Ma come mai le avversità di una giovane studente finiscono sotto la lente d’ingrandimento dei magistrati calabresi? La risposta è semplice: quella ragazza, iscritta alla facoltà di Medicina dell’Università di Messina, è la figlia di Luigi Mancuso, conosciuto come il Supremo. Il boss, secondo gli inquirenti, avrebbe cercato il modo di aiutare la giovane ricorrendo alle conoscenze di Giancarlo Pittelli, l’avvocato massone che dopo l’esperienza da parlamentare di Forza Italia di recente era stato accolto da Giorgia Meloni in Fratelli d’Italia. Ma Pittelli, che è stato arrestato con l’accusa di associazione mafiosa, per il boss di Limbadi sarebbe stato molto di più: un factotum capace di venire incontro alle esigenze più varie, grazie alla rete di relazioni di alto livello coltivate negli anni. Tra esse anche la capacità di arrivare fino al vertice dell’Università di Messina, il rettore Salvatore Cuzzocrea, all’epoca dei fatti fresco di vittoria alle elezioni universitarie.
Per arrivare al magnifico, Pittelli avrebbe contattato Candido Bonaventura, anche lui avvocato ma soprattutto parente di Cuzzocrea. È il 16 aprile, quando i carabinieri del Ros, che da tempo seguono Pittelli, intercettano una telefonata tra i due. A quel colloquio sarebbe seguito, l’indomani, un incontro a quattro in un locale vicino al tribunale di Messina: da una parte Bonaventura e Cuzzocrea, dall’altra Pittelli e la giovane Mancuso. A raccontare come sarebbe andata è il 18 aprile lo stesso Pittelli, mentre siede al tavolo di un ristorante nella zona di Sacco Pastore, a Roma. «Ieri ero a Messina, la figlia viene al traghetto e dice: “Avvocato, non riesco a superare Istologia, perché è un professore stronzo” – racconta l’ex parlamentare ai due commensali -. Vado all’università, chiamo l’avvocato Candido, che è il cugino del nuovo rettore, e dico: “Mi trovi tuo cugino?”». A quella richiesta sarebbe seguita la massima disponibilità, al punto che poco dopo davanti a Pittelli e alla studente si sarebbe presentato proprio Cuzzocrea. «Sai chi è questo signore?», avrebbe chiesto Pittelli alla giovane, che dopo aver risposto affermativamente avrebbe faticato a reggere l’emozione.
Per i magistrati, l’aneddoto non è altro che l’ennesima prova di come Pittelli fosse a disposizione del boss Mancuso. Al contempo, però, questa storia riaccosta l’università di Messina alla ‘ndrangheta. Un accostamento esploso a cavallo tra fine anni Novanta e Duemila, gli anni del «verminaio», culminati in inchieste e processi ma su cui ancora oggi restano non poche ombre. «Io, fino a ieri, Giancarlo Pittelli non sapevo neanche chi fosse. Per capire che faccia abbia, sono andato a cercarlo su internet», è la replica a MeridioNews di Salvatore Cuzzocrea. Il rettore nega di avere mai incontrato l’avvocato massone né di avere mai ricevuto solleciti per la carriera della figlia del boss. «Escludo categoricamente che qualcuno me ne abbia parlato, questa storia ha dell’assurdo – prosegue Cuzzocrea -. Da parte mia non posso che ribadire l’importanza di questa indagine, ma voglio difendere l’immagine dell’università. Perché io non so davvero di cosa si sta parlando, con queste persone non ho mai avuto alcun rapporto».
La versione di Cuzzocrea trova conferma anche nelle parole dell’avvocato Bonaventura, che dal canto suo conferma di avere incontrato la ragazza. «Pittelli, lo conosco da anni, ho sempre creduto fosse una persona perbene e sono sicuro che ne verrà fuori da questa storia – dichiara Bonaventura al telefono -. Ricordo che un giorno mi telefonò, ma non ci incontrammo di certo l’indomani. Venne a Messina perché aveva altre questioni professionali. La signorina l’ho conosciuta, ma non sapevo di chi fosse figlia. Era insieme ad altri ragazzi, credevo fossero collaboratori del collega». Bonaventura aggiunge di avere saputo che gli studenti avevano problemi con l’organizzazione degli esami, ma non ci sarebbe stata alcuna richiesta di agevolazione precisa. «D’altra parte anche fosse arrivata, non avrei fatto nulla, io non mi occupo di università», chiosa l’avvocato.
Dell’andamento degli studi della figlia, Luigi Mancuso e Giancarlo Pittelli ne parleranno anche il 27 aprile. Ovvero dieci giorni dopo il presunto incontro a Messina con il rettore. Anche in quell’occasione, a seguire la conversazione ci sono i carabinieri. Poi però accade qualcosa: «Il telefono che ci fa là?», chiede il boss all’avvocato. Il messaggio è chiaro e non necessita di ulteriori spiegazioni. «A questo punto – riporta il gip nell’ordinanza – il legale, obbedendo al boss, chiama la propria assistente». Alla donna Pittelli affida il telefono dicendo di portarlo in un’altra stanza.
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