Un ponte di zattere da Agrigento alla Tunisia L’installazione-provocazione della ong tedesca

«L’Austria ha dimostrato tante volte di essere un grande Paese, lasciateci costruire un ponte sul futuro». Con queste parole, il responsabile nazionale dei rifugiati della Repubblica Austriaca, Christian Konrad, saluta la più colossale infrastruttura di tutti i tempi: il viadotto più lungo che sia mai stato costruito al mondo, e per di più a cavallo tra due continenti. «Un ponte di pietra, una dimostrazione monumentale di umanità», si dice nel video che presenta il progetto. La costruzione inizierà nel 2017 e si protrarrà fino al 2030 e l’obiettivo è fare del vecchio continente una terra «aperta e caritatevole», trasformare «la fortezza Europa in una casa aperta»

Il mega-cavalcavia si chiamerà Jean Monnet ed è stato presentato come «un’iniziativa della Repubblica Austriaca per l’Unione Europea». Le risorse necessarie ammontano a 230 miliardi, da reperire in itinere grazie all’apporto di tutti gli altri Stati, una volta che l’Austria avrà dato il via ai lavori. Ma le 36mila vittime che il mar Mediterraneo ingoia ogni anno costituiscono un grido d’aiuto dinanzi al quale non si può aspettare; ecco perché il progetto, denominato Die Brucke (Il Ponte), prevede l’iniziale installazione di mille piattaforme lungo il tracciato del ponte: da Agrigento alla Tunisia. La prima, che prende il nome di Aylan 1, (come il nome del piccolo siriano morto mentre cercava di arrivare in Grecia) è stata montata stamane dagli operatori del Zentrum für politische Schönheit (Centro per la Bellezza Politica) di Berlino, i quali, assieme ad alcuni tecnici, hanno preso il largo intorno alle 5 del mattino dirigendosi a tre ore di navigazione dalle coste di Licata, al motto di «l’umanità è una vittoria per ognuno di noi». 

Emilia Leuchter e Frida Bauman, responsabili del progetto ideato da Philipp Ruch, raccontano la loro giornata in mare: «Avevamo posticipato l’installazione a causa del maltempo; oggi, invece, è andato tutto liscio. Abbiamo affittato una barca e, assieme ai tecnici, un fotografo e un video maker, siamo andati a piazzare la piattaforma in un punto dove la terraferma non si vede più: al centro della rotta percorsa da centinaia di barconi». Ogni singolo «zatterone di salvataggio» ha un costo di 20mila euro comprensivi di trasporto, ha un’ampiezza di sei metri per sei ed è dotato di un sistema fotovoltaico che alimenta le prese di corrente, le luci di posizionamento e un telefono SOS; sulla piattaforma i migranti troveranno, inoltre, giubbotti di salvataggio, acqua e cibo

Emilia e Frida parlano anche del Centro di cui fanno parte: «Siamo un gruppo di artisti, laddove per arte intendiamo un umanismo aggressivo che aiuta a cambiare in meglio le negatività del mondo. Il nostro ufficio è a Berlino e vi lavorano circa otto persone, mentre in occasione delle varie azioni possiamo anche essere di più; collaboriamo con teatri, festival e istituzioni culturali. Questa volta abbiamo pensato di proporre al fondo europeo che si occupa delle frontiere questo progetto ambizioso ma allo stesso tempo importante per scuotere le coscienze». Cos’è, quindi, l’arte? «È resistenza civile; deteniamo l’arte per non sprofondare nella realtà». Il Centro berlinese non è nuovo a progetti di questo tipo: nel corso dell’ultima azione, denominata Arrivano i morti, ha trasferito due corpi dal Mediterraneo alla capitale tedesca, proprio al cospetto della Merkel, presso la Bundeskunsthalle, per poi restituire dignità alle vittime del mare con la celebrazione di funerali secondo il rito musulmano.

Ovviamente questa è una provocazione che nemmeno gli ideatori di 2001 Odissea nello spazio, Guerre Stellari e Blade Runner messi assieme avrebbero potuto architettare, e le ragazze, che utilizzano appositi pseudonimi, reggono bene la parte. Tuttavia, provocazione non è da leggersi come messa in ridicolo del fenomeno dell’immigrazione: sia il lavoro che gli intenti del Zentrum für politische Schönheit (raggiungibile al sito politicalbeauty.com) sono encomiabili, ancorchè estremi nella loro crudezza. Umanismo aggressivo, violento forse, si diceva; ma se poi l’obiettivo è «fare qualcosa per noi stessi, facendo qualcosa per gli altri», il fine giustifica i mezzi.

Gino Pira

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