Un giorno da insider all’assemblea di Eni a Roma Descalzi: «A Gela abbiamo chiuso senza chiudere»

Dall’ex azienda di Stato più famosa e importante nel mondo, che nel 2018 ha fatturato un utile netto di 4 miliardi e 126 milioni di euro, ci si aspettava forse un maggiore sfarzo. Invece la sala dove si riunisce a maggio ogni anno l’assemblea degli azionisti dell’Eni è piuttosto angusta, e neanche il catering è granché. Eppure è qui, nell’austero e imponente palazzo di vetro del quartiere Eur a Roma, che dal cane a sei zampe arrivano le risposte più importanti sulle politiche aziendali portate avanti nel corso dell’anno. Grazie all’associazione A Sud, che da 15 anni si occupa di ambiente e giustizia sociale, chi scrive ha scelto di svolgere l’azionariato critico. Un modello molto diffuso tra le aziende anglosassoni e che in Italia ha visto, tra i suoi principali esponenti, l’ex comico genovese Beppe Grillo acquisire delle quote per partecipare da dentro alle assemblee di Telecom e Parmalat. L’idea di A Sud era di concentrare le domande sui singoli siti industriali dove Eni è presente: Taranto, Gela, Licata e la Val D’Agri.

Dopo un’introduzione più tecnica e concentrata sui bilanci da parte della presidente Emma Marcegaglia, è stato l’amministratore delegato Claudio Descalzi a sintetizzare, con un intervento lungo un’ora e mezza, i principali asset dell’azienda che resta fortemente connotata sul modello estrattivista (e dunque sulle fonti fossili), ma che vuole allo stesso tempo diversificare le fonti di approviggionamento dell’energia, provando a ridurre l’impatto ambientale. Con risultati in realtà ancora flebili.

E ciò lo si può vedere proprio con l’ex raffineria di Gela, chiusa nel 2014 perché, come ha ricordato Descalzi, «il settore della raffinazione è in perdita costante da anni e solo il sito gelese in sei anni ha bruciato due miliardi di euro». Peccato che proprio nella sua introduzione di quest’anno l’ad di Eni abbia annunciato trionfante l’acquisto a gennaio della raffineria di Adnoc, negli Emirati Arabi (con un investimento da oltre tre miliardi di euro). Mentre il sito siciliano da cinque anni attende una riconversione industriale rimasta al momento sulla carta. Dopo l’accordo del 6 novembre 2014 firmato al Mise, infatti, i tanti progetti annunciati da Eni e dalle istituzioni locali restano al palo. A partire dalla green refinery, che nelle previsioni avrebbe dovuto essere avviata nel 2017 e che invece dovrebbe partire nel secondo semestre di quest’anno. 

Un ritardo di due anni, insomma, nonostante Eni spieghi come «abbiamo investito circa 270 milioni per la conversione della raffineria di Gela che è in fase di commissioning ancora per alcune settimane». La colpa del ritardo, secondo Descalzi, è da imputare «ai governi e in questo caso al ministero dell’Ambiente che ci ha rilasciato le autorizzazioni necessarie soltanto nell’agosto del 2017». Attualmente ci sono un impianto costruito, che lavorerà cariche di prima generazione «attraverso olio di palma di origine indonesiana», e l’impianto Steam Reforming per la produzione di idrogeno che tratterà anche «materie prime di seconda generazione, composte dagli scarti della produzione alimentare come gli oli esausti o i grassi animali». Eni promette in ogni caso che «il ruolo dell’olio di palma diventerà del tutto marginale», non indicando però tempistiche e modalità.

L’altro grande progetto che riguarda la Sicilia è l’offshore ibleo, che sempre secondo i piani del 2014 avrebbe dovuto prevedere 1 miliardo e 800 milioni di euro di investimenti per la creazione di una piattaforma petrolifera a mare e la coltivazione dei campi gas di Argo e Cassiopea nel mare al confine tra Gela e Licata. Nel corso di questi anni, però, il progetto ha cambiato fisionomia (e accumulato nuovi ritardi) con il cane a sei zampe che ha definito l’installazione un «impianto di trattamento e compressione a terra all’interno del perimetro della raffineria di Gela»: vale a dire un gasdotto sottomarino lungo 60 chilometri per condurre il gas (metano) da mare a terra, dove verrà poi «immesso nella rete di distribuzione nazionale Snam». L’avvio della produzione in questo caso è previsto entro il 2021, anche se finora le descrizioni date dall’azienda sono tutte sommarie: «positive ricadute in termini di occupazione locale» non quantificate, generiche «opere di compensazione al comparto pesca» e «un avvio di dialogo con gli stakeholder istituzionali per affrontare il tema».

Bloccato persino il progetto guayule, di Versalis (la consociata di Eni che si occupa di chimica e plastiche), per la «produzione di lattici naturali, gomma dry e resine partendo dalla pianta del guayule con lo sviluppo della filiera agricola». Al momento le coltivazioni sperimentali di Barcellona Pozzo di Gotto, Capo d’Orlando e Cammarata non hanno dato i risultati sperati – complici le precipitazioni copiose del 2017 e quelle ancora più abbondanti del 2018. Eni lo definisce «un progetto “vivo” (le virgolette sono nel testo fornito dall’azienda, ndr)» 

E allora cosa resta di questa riconversione che sembra più un semplice ridimensionamento industriale? Forse i tentativi di narrazione. Nella sua relazione Descalzi ha parlato di Gela come «il più grande polo tecnologico dell’Eni in Italia», nel senso che la città si appresta a diventare il sito di studio e di avvio di una manciata di progetti pilota. Come ad esempio il waste to fuel che dovrebbe produrre bio olio. Ma appena 70 chili al giorno, con un impianto che viene alimentato con 700 chili di rifiuti organici provenienti dalla società che gestisce i rifiuti di Ragusa perché «l’Ato2 (di Caltanissetta, ndr) è in liquidazione e quindi non avrebbe potuto assicurare la continuità della fornitura». Mentre sembra esserci confusione all’interno della stessa azienda su alcuni aspetti: da una parte sul report dato agli azionisti ha scritto che «l’acqua generata dal processo di trattamento potrebbe essere impiegata per usi agricoli e industriali», dall’altra Descalzi ha promesso che il prossimo anno porterà un bicchiere d’acqua proveniente dall’impianto waste to fuel per «berlo insieme agli azionisti». 

Ma quanti sono attualmente i lavoratori all’interno dello stabilimento gelese? Anche in questo caso Eni gioca un po’ con le cifre. Afferma che «i dipendenti in servizio nel sito industriale sono attualmente 928 di cui 370 della Raffineria di Gela»: ovvero un terzo di quelli impiegati nel 2014. Mentre «il numero medio di lavoratori dell’indotto nel perimetro Eni è stato nel 2018 di 1.870 unità»: ma in questo caso bisogna considerare che il cane a sei zampe conteggia tutti coloro che sono entrati dentro lo stabilimento gelese anche per singoli cantieri dalla durata di un mese

È per questo, dunque, che al termine di un’assemblea lunghissima – cominciata alle 10 del mattino e terminata, dopo 21 interventi orali, alle 20 di sera – un affaticato Descalzi usa un paradosso per definire la situazione dello stabilimento di Gela. «Abbiamo chiuso senza chiudere», afferma l’amministratore delegato dell’Eni, che poi si fa più chiaro quando chi scrive solleva il dubbio, nel proprio intervento, che forse l’ex raffineria sia diventata in questi anni un mero deposito costiero. «Non si può avere un figlio uccidendo la madre. A Gela sono rimasti qualche migliaio di barili di petrolio (che viene estratto dagli 80 impianti di perforazione sparsi lungo la piana di Gela, ndr) mentre il gas verrà utilizzato in parte per la green refinery e in parte verrà venduto. Se a Gela le compensazioni (32 milioni previsti dal protocollo d’intesa del 6 novembre 2014, ndr) non sono ancora state spese è colpa della Regione, non certo nostra che quando serve ci siamo. Dirò di più: Gela si potrebbe pensare come un caso di economia circolare, perché le strutture non si possono smontare e noi invece le riutilizzeremo».

Andrea Turco

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