Parlano di una prassi instaurata nel tempo, di «condotte gravissime ampiamente dimostrate», i magistrati della Procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, e i carabinieri del Nas di Catania. Alla clinica Di Stefano Velona, conosciutissima e storica struttura sanitaria di via Sant’Euplio, il fondamentale rapporto tra la fiducia del paziente e la responsabilità dei medici diventava invece un mezzo per «lucrare in maniera indegna sulla pelle delle persone e sui rimborsi del Servizio sanitario nazionale», dice il procuratore capo. Eppure, in fondo, il sistema messo in piedi da proprietà e massimi vertici sanitari della casa di cura – indagati con accuse come associazione a delinquere per truffa ai danni dello Stato, abuso d’ufficio e falso in atto pubblico – non aveva niente di complesso. Molti esami pagati dalla sanità pubblica in realtà non sarebbero stati svolti, in modo da incamerare l’intero rimborso e «riducendo al minimo le spese per la clinica». Non solo. La Procura parla anche di cure prestate in maniera superficiale, che avrebbero causato ai malati complicazioni e conseguenze gravi e che si sarebbero invece potute evitare.
Proprio però dalla denuncia di una delle vittime, un uomo 40enne affetto da un mixofibrosarcoma (un tumore dei tessuti molli), è scattata l’inchiesta della Procura. «Imponente», dicono magistrati e carabinieri, e dispiegatasi dal 2015 al 2017 attraverso l’acquisizione di circa cinquemila cartelle cliniche e intercettazioni su una cinquantina di utenze telefoniche. La tenaglia degli investigatori si è così chiusa su Nunzio e Ornella Di Stefano Velona, amministratori della clinica, sul direttore sanitario Sebastiano Villarà e sui medici Alfio Sciuto, Giuseppe Adamantino e Giuseppe Renzo Roberto Calanducci. I primi quattro sono stati sospesi dall’esercizio delle loro funzioni per un anno, gli ultimi due per sei mesi. Sono stati inoltre sequestrati oltre 105mila euro, l’equivalente di un anno e mezzo di presunta truffa. La clinica è stata inoltre chiusa per un anno.
Tutti loro, secondo la Procura, erano i registi di quanto accadeva nella clinica. Tanto da dare direttive non solo sul taroccamento di test medici in realtà mai svolti, ma anche sulla richiesta di 80 euro per indagini diagnostiche che in realtà erano gratuiti. Il solo Calanducci – è l’esempio dei magistrati in conferenza stampa – avrebbe attestato 1170 esami inesistenti. Il direttore Villarà, invece, si sarebbe sostituito a un paziente, falsificandone la firma per un consenso informato. Lo avrebbe confermato una consulenza grafologica.
Il sistema interessava le prestazioni in day service, convenzionate con il Servizio sanitario nazionale. «La diagnosi in ordine alla natura delle masse tumorali di volta in volta asportate veniva lasciata all’intuito del medico – scrivono i magistrati – che, in base alla sua esperienza, decideva quando erano necessari approfondimenti e quando poteva evitarsi lo screening istologico, verifica di contro sempre necessaria». Così il 40enne affetto dal mixofibrosarcoma che ha denunciato sarebbe stato dimesso con la diagnosi di un lipoma (tumore benigno) effettuata «a vista», senza esami strumentali. Il paziente, per tre volte, si era rivolto alla clinica a causa del ripresentarsi di una formazione anomala all’inguine sinistro. Quel ritardo avrebbe portato l’uomo a non poter più camminare e alla crescita incontrollata del cancro, con metastasi in varie parti del corpo. L’esame istologico compiuto in tempo avrebbe, forse, portato ad altro esito.
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