Giacomo Pilati, storico giornalista del Giornale di Sicilia e di Rtc, aveva 22 anni quando la sua redazione lo inviò sul luogo della strage: Pizzolungo. Ricordare cosa successe il 2 aprile del 1985 – quando la mafia voleva eliminare il giudice Carlo Palermo, ma uccise Barbara Rizzo, 30 anni, e i figli Salvatore e Giuseppe Asta, gemelli di 6 anni – è necessario e doveroso e ha un senso ancora più forte se a farlo è chi quel giorno era lì, sul luogo e ha visto coi suoi occhi e respirato con il proprio naso quell’aria carica di orrore.
Le margherite gialle erano ovunque quella primavera. O almeno ora così mi pare. E c’era pure quel canto delle tortore che forse avevo sentito quei giorni per la prima volta. Forse però, o magari non ci avevo mai fatto caso prima. Un fischio interrotto, cadenzato, strozzato cupo. Che non c’entrava niente con l’immagine che mi ero fatto di quel suono. E quei fiori gialli, qualunque, di quelli che nessuno si sognerebbe mai di raccogliere. Di quelli che accecano i prati, travisano i contorni. Come una inutile distrazione. E poi quel tempo infinito. Che a 22 anni lo puoi toccare, modellare, perché ha sostanza. Un tempo con le ore che rimangono appiccicate al palato, come una gomma da masticare. Un tempo che lo puoi sentire in bocca. Oppure sulla pelle, come una seta o come una lana grezza.
Ecco quella mattina del due aprile del 1985 io stavo così. Sospeso fra i fiori gialli, il canto strozzato e la gomma da masticare delle ore sotto i denti. Aspettando il futuro, i giorni nuovi. Col mio sogno di scrivere, e un giornale giallo come quei fiori qualunque. Un giornale che per me, Luciano, Salvatore e Gaspare era una piccola rivoluzione. Si chiamava Lo Scarabeo, una miccia per incendiare i sogni di chi come noi in questa città voleva restarci. Per cambiarla, per farne un’altra cosa. Senza padrini, raccomandazioni. Compromessi. Senza le solite cose.
Il giornale era nato subito dopo l’omicidio di Ciaccio Montalto, e il nostro primo editoriale raccontava di una città che aveva partecipato ai funerali più per curiosità che per convinzione. Che ad un certo punto erano spuntati i carretti dei palloncini e quelli dei caccavettari. E non tutti dopo erano d’accordo con noi. Anzi qualcuno si è pure offeso. E non ci ha fatto vendere il giornale nella sua scuola. Perché Trapani non era questa e poi chi lo ha detto che Ciaccio Montalto è stato ucciso per mafia come avete scritto voi? Lo avevamo scritto noi, vabbè. E poi io sono stato interrogato dai carabinieri perché mi ero messo in testa con Luciano di fondare un coordinamento antimafia, il primo. E un sottufficiale mi disse che dovevo stare attento perché il terrorismo poteva annidarsi lì in mezzo. E che forse avrei fatto meglio a continuare gli studi, perché un pezzo di carta è sempre importante sa.
Il terrorismo. E noi che parlavamo di intitolare una strada a Ciaccio Montalto che nessuno voleva e organizzavamo fiaccolate e cineforum per raccontare quello che stava succedendo in città. L’antimafia che non era di moda in quell’aprile del 1985 perché era meglio farsi i fatti propri, che in fondo questi mafiosi si ammazzano fra di loro. E poi è arrivato quel giudice da Trento. Che ne poteva sapere uno che viene da fuori delle cose nostre? E allora lo stomaco della città ha cominciato a borbottare, quelle scorte così rumorose, le pistole per strada, un esibizionista ecco cos’era quel giudice Carlo Palermo. Che se ne tornasse a casa sua, che la nostra città è pulita. Quella mattina ero andato al Comune a ritirare un certificato e ho visto le macchine della polizia dappertutto e sono scappato al Giornale di Sicilia ed Enzo era già in macchina col fotografo e mi ha detto di andare di corsa in televisione perché c’era stata una bomba a Pizzolungo e c’erano dei morti e che ci dovevo pensare io.
A Rtc c’erano Wolli e Giovanni e loro mi hanno raccontato quello che era successo: la moglie di Nunzio Asta, Barbara Rizzo e i suoi due gemelli dilaniati da una bomba destinata al giudice Palermo. E mi hanno detto che bisognava andare subito in diretta. E io che avevo ancora in testa quella mattina di seta e quei fiori gialli sulla pelle e il sapore delle ore lente nella bocca. Mi sono tolto il giubbotto, mi sono seduto davanti alla telecamera ed ho cominciato a parlare. Degli assassini figli di puttana che avevano rovinato la vita di una famiglia e pure la nostra. Li ho chiamati proprio così, perché mi è scappato. E una telespettatrice dopo cinque minuti ha telefonato dicendo che a quell’ora i suoi bambini erano davanti alla televisione e lei ha dovuto spegnerla perché una parolaccia così non si poteva sentire. E poi è arrivato Ninni e lui si è preso una telecamera e col cameraman sono andati a Pizzolungo e io sono rimasto davanti alla telecamera per due giorni.
E ho rivisto le margherite gialle ma questa volta erano in mezzo ai rottami di ferro. E poi ho visto il tatuaggio di uno dei fratellini Asta sul muro di una casa. E un libro di scuola a terra fra i rottami e sulla copertina c’era scritto «Per crescere insieme». E ho visto tanti curiosi che erano lì sul prato a raccogliere pezzetti di auto, macabri souvenir, e poi se li nascondevano nelle tasche. E poi è venuta una signora, che era la maestra di uno dei due gemelli e io l’ho intervistata. E poi sono arrivati i giornalisti del nord. E uno del Corriere della Sera si è piazzato lì davanti a me a sentire quello che dicevo e i servizi di Ninni e il pezzo l’ha scritto così senza metterci piede a Pizzolungo e il giorno dopo invece il suo articolo cominciava con la descrizione dell’odore della carne bruciata. E Rtc è diventata all’improvviso una piazza. La piazza della città, in un momento. E io ero lì a raccontare un incubo in diretta. Al microfono l’indignazione di tutti per il vile gesto. Fuori però c’era pure chi dava la colpa al giudice piuttosto che alla mafia, perché se lui fosse rimasto a Trento, ora non avremmo tre morti sulla strada. E invece la colpa era nostra che non avevamo capito che quel paradiso in cui eravamo cresciuti era solo un travestimento del diavolo per prendersi le nostre anime. Io che credevo fino a quel giorno che fuori era tutto quasi fantastico e invece non era vero niente. Una illusione. Ma anche la consapevolezza di aver perduto l’innocenza. In un attimo. E’ da trent’anni che non sento più le tortore cantare.
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