Colpevole. Così come era stato deciso nel processo di primo grado. Alla sbarra, davanti la corte d’assise d’appello Luigi Cassaro, condannato a trent’anni per l’omicidio di Francesco Calcagno. Ucciso nella campagna dov’era andato a lavorare, nel territorio di Palagonia in contrada Nunziata, il 23 agosto del 2017. Un delitto ripreso dalle telecamere di videosorveglianza con i filmati che vennero diffusi dalle forze dell’ordine, su mandato della procura di Caltagirone, per cercare di dare un nome e cognome a chi aveva sparato. Originario di Licata, in provincia di Agrigento, Cassaro ha ammesso di avere premuto il grilletto della sua revolver durante l’udienza preliminare. Ma la sua è stata solo una confessione a metà. Perché l’uomo non ha mai rivelato il movente. «La verità la conosce soltanto lui», chiosa a MeridioNews il suo legale, l’avvocato Calogero Patti.
Lo stesso conferma che durante il processo non è mai emerso un collegamento tra questo fatto di sangue e l’omicidio di Marco Leonardo. Chiacchierato consigliere comunale di Palagonia ucciso il 5 ottobre 2016, proprio da Calcagno, all’interno di un bar della cittadina. Una lunga scia di sangue proseguita qualche mese dopo, con un colpo di pistola che colpì al braccio Salvatore Leonardo, nipote del politico. Quando è stato ucciso Calcagno aspettava l’inizio del processo. Il bracciante agricolo aveva anche confessato il coinvolgimento nel delitto Leonardo, trascorrendo un periodo agli arresti domiciliari fuori dalla Sicilia. Poi il ritorno nell’Isola, a Palagonia, per aspettare il verdetto dei giudici.
Il killer lo aveva sorpreso entrando da un cancello lasciato aperto. Ma a tradirlo, oltre alle segnalazioni dei cittadini dopo la diffusione del video, era stato un cappellino nero. Che l’uomo indossava in un primo momento, salvo poi perderlo durante la fuga. Nella zona del calatino Cassaro non era uno sconosciuto. Oltre a fare l’operaio si era inserito nel mondo delle macchinette del caffè come rappresentante porta a porta, attivo non solo nella provincia di Agrigento ma anche in quella di Catania. In un primo momento carabinieri e magistrati avevano seguito due piste investigative. La vendetta a carattere privato e quella del possibile arruolamento. Tesi, quest’ultima, che non ha mai avuto riscontri durante il processo.
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