Trattativa Stato-mafia: chi ha paura della verità?

La questione vitale per il futuro dell’Italia non è lo spread, anche se dovesse finanziariamente fare crac. La questione più importante per il benessere di qualunque nazione, riguarda la credibilità etica dello Stato. Infatti anche le nazioni devono avere una “morale condivisa”, un qualcosa che lega i cittadini e i suoi governanti sul senso comune del bene e del male, su come si persegue il primo e come si evita il secondo.

Nel rapporto tra Stato e mafia, quanto è ancora credibile la nazione degli italiani? Il presidente Giorgio Napolitano, in occasione dell’anniversario della strage di Via D’Amelio, ha reso pubblico questo messaggio: “Non c’è alcuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità”.

Rita Borsellino, parlamentare europea e sorella del magistrato ucciso dalla mafia venti anni fa, ha detto che il conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente della Repubblica contro la Procura della Repubblica di Palermo per le intercettazioni che lo riguardano nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia nei primi anni Novanta “è uno schiaffo a tutto il Paese, proprio nel momento in cui la verità ci sembra più vicina”.

C’è stato in questi giorni, a nostro parere, un equivoco nelle polemiche sulla trattativa tra Stato e mafia, perché si è diffusa l’idea che questa fosse ancora da provare. Lo si ripeterà fino alla noia: la mafia senza il rapporto con le istituzioni non esiste, o meglio non sarebbe più mafia, ma sarebbe cosa ‘altra’. Farebbe parte di quella criminalità organizzata che ogni tanto fa un gran colpo e che più spesso finisce in galera o al cimitero.

Quindi, nel rapporto Stato-mafia, ad avere il coltello dalla parte del manico è sempre il primo: gli basterebbe tagliare certi ponti con le istituzioni e ogni spazio per la “trattativa” si cancella. La mafia smetterebbe di essere tale perché non potrebbe più respirare senza la collusione con la politica e le istituzioni. E’ un po’ come svuotare un grande lago: i pesci morirebbero da soli, non c’è più bisogno di acchiapparli.

Sostenere che lo Stato inizia una trattativa con la mafia, è un controsenso. Se la mafia c’è, la trattativa c’è sempre. Invece certi mafiosi come Riina e Provenzano, nel ‘92-’93, mettono bombe dappertutto perché devono “imporre la trattativa”, ammazzando anche Falcone e Borsellino. La logica dice che la politica aveva deciso di interrompere il rapporto sempre esistente tra lo Stato italiano e la mafia. E’ naturale che i mafiosi volevano continuare a trattare, che volevano continuare ad essere mafiosi, ma accadde che lo Stato, in coincidenza della caduta del Muro di Berlino e poco dopo l’arrivo di Falcone al ministero della Giustizia, si fosse deciso a farla finita con la mafia.

Ne “Il Divo”, il bel film di Paolo Sorrentino su Giulio Andreotti, si vede un sudatissimo Salvo Lima nella primavera del ’92 che non riesce più a far “trattare” il sette volte premier con i picciotti, e infatti il capo degli andreottiani in Sicilia viene ammazzato pochi giorni dopo a Palermo. Rimettersi a “trattare” con la mafia, dopo che è morto Falcone (e prima dell’attentato a Borsellino) non è un modo per evitare danni peggiori, e quindi attenersi alla “ragione di Stato”. Come avevamo scritto proprio su questo giornale un mese fa, è invece un atto di “alto tradimento”, perché significa scendere a patti con la mafia proprio quando i pescecani erano rimasti senza più ossigeno. Ecco che infatti spunta chi rimette l’acqua nella vasca!

Chi tradisce lo Stato italiano che stava tagliando quei ponti con la mafia dopo 130 anni? Chi lo fa tornare indietro nella storia?

Emblematico, per capire la mafia, è il film capolavoro di Francis Ford Coppola, ripreso dal romanzo di Mario Puzo “Il Padrino”. Don Vito Corleone è l’unico mafioso seduto al lungo tavolo del vertice della Commissione che deve fare la pace tra i boss dopo i vari massacri. Gli altri infatti sono solo gangster, semplici mobster, capi e capetti della malavita, nonostante i vestiti a doppiopetto. Infatti, quando prima del bacio che dovrebbe decretare la pace, si rinfacciano a vicenda le colpe della guerra, i mobster accusano Don Vito di non voler “share his connections”, di non voler condividere con gli altri i suoi legami con le istituzioni, con i giudici, i politici etc. Perché Don Vito sa come coltivarle queste connessioni, per farsi proteggere e per poter rimanere appunto un boss mafioso. Gli altri, che non sono in grado di nuotare nel mare del potere, restano dei semplici e meno pericolosi criminali.

Il pm Antonio Ingroia dichiara che siamo ormai vicinissimi alla verità sulla trattativa, speriamo allora che la verità giudiziaria arrivi prima della sua partenza per il Guatemala. I magistrati palermitani, già allievi di Falcone e Borsellino, che nella ricerca della verità non si fermano neanche davanti al “sacrario” della Presidenza della Repubblica, conoscono bene la logica storica dei rapporti tra Stato e mafia, dal Regno d’Italia alla Repubblica: la trattativa non è mai l’eccezione ma la regola.

Dopo qualche rara interruzione della trattativa continua (Cesare Mori inviato in Sicilia da Mussolini nei primi anni al potere; i 100 giorni a Palermo di Carlo Alberto Dalla Chiesa) anche quel fatidico ’92 con Giovanni Falcone chiamato a Roma dal ministro Caudio Martelli, avrebbe potuto rappresentare l’inizio della fine per la mafia. Ai magistrati l’arduo compito di trovare le prove che inchiodino alle loro responsabilitá quei traditori che abortirono sul nascere quel riscatto morale dello Stato italiano.

Foto  in prima pagina e sopra tratta datriskel182.wordpress.com

Foto in basso a destra trtta da celebrategoodtimes.it

 

 

 

Stefano Vaccara

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