Altri due arresti per l’omicidio di Salvatore Lombardo, freddato a colpi di fucile il 21 maggio del 2009 di fronte allo Smart Cafè di Partanna. In carcere sono finiti Giuseppe Genna di Paceco e Rosario Scalia di Castelvetrano che avrebbero fornito l’auto e un supporto logistico per l’omicidio.
Le indagini, condotte dai carabinieri di concerto con la polizia con il supporto degli uomini dello Sco e del Ros, sono coordinate dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Francesco Grassi e Carlo Marzella. Un delitto che sembrava destinato a diventare un cold case.
La svolta è arrivata due anni fa: indagando su alcuni fedelissimi del boss Matteo Messina Denaro, gli investigatori hanno trovato nelle intercettazioni la soluzione del caso. Lombardo sarebbe stato punito per aver rubato il furgone del supermercato Despar gestito dal boss partannese Domenico Scimonelli, ritenuto vicinissimo alla primula rossa castelvetranese ed attualmente sotto processo di fronte la Corte d’Assise di Trapani con l’accusa di essere lui il mandate dell’omicidio Lombardo.
Lo scorso aprile sono stati condannati a 16 anni di carcere, come esecutori materiali dell’omicidio, Attilio Fogazza di Calatafimi-Segesta e Nicolò Nicolosi di Salemi. La sentenza è stata emessa dal gup di Palermo, dopo che i due hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato.
Scimonelli invece, coinvolto nell’operazione Ermes messa a segno nell’agosto del 2015, è stato condannato lo scorso 2 maggio a 17 anni di carcere per associazione mafiosa. L’uomo, nato a Locarno nel 67, imprenditore nel settore del vino (è anche stato premiato a Vinitaly) ed ex consigliere nazionale della Democrazia Cristiana, è considerato dagli investigatori il postino dei pizzini di Messina Denaro.
Nella sentenza di condanna si sostiene che il 48enne svizzero raccoglieva i pizzini degli altri uomini d’onore da recapitare al boss stragista. Per smistare i pizzini, Scimonelli avrebbe utilizzato una bimba di cinque anni; lo ha raccontato il padre della piccola ai pm della Dda di Palermo. Dichiarazione che l’uomo ha ripetuto nel corso del processo a Fogazza e Nicolosi.
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