Transgender, tra identità e discriminazione «Non conoscono me, ma un luogo comune»

Iscriversi in palestra, prendere un libro in biblioteca, pagare con carta di credito. Ogni giorno sono innumerevoli le situazioni per le quali viene richiesta una carta d’identità. Eppure molte persone vivono un gesto quasi banale come il potenziale avvio di discriminazioni o, nel caso migliore, con sorrisi imbarazzati. Sono i transgender, per i quali è impossibile modificare le informazioni sul documento identificativo senza aver subito l’intervento chirurgico. Vittoria, studentessa laureanda del dipartimento di Studi umanistici etneo, lo sa bene. Una lunga chioma rossa a incorniciare il volto, un vestito dai colori accesi e un nome ufficiale che non coincide con il genere femminile in cui si identifica. «A volte, quando vedono il documento, entrano in silenzio stampa – sorride amaramente – Non dicono niente, ma per me è un po’ imbarazzante, dà fastidio».

Sono tanti i casi che elenca: dalla richiesta di un affitto negata alla discriminazione di genere compiuta dalle forze dell’ordine. «Camminavo in viale Vittorio Veneto con un’amica – spiega – ci hanno fermate e chiesto il documento. Appena hanno visto il mio al maschile, mi hanno detto: “La sua estetica non combacia con il documento che mi sta presentando”. Non mi andava di spiegare, non era il caso, ma mi sono arrabbiata», confessa. «Un conto è vestirsi da donna perché devi fare una rapina, un altro è farlo perché ti senti donna. Bisogna distinguere. Serve molta sensibilizzazione all’interno delle istituzioni. Anche se a Catania – riconosce – siamo abbastanza protette». E poi ci sono le situazioni ordinarie, come la decisione di iscriversi in palestra: «Mi presento al femminile, ma nel documento compare il nome maschile». Oppure all’università, «prima dell’esame, il professore fa l’appello per vedere se tutti i prenotati si sono presentati e fa il mio nome al maschile. Io mi devo registrare per forza così – puntualizza – C’è chi si gira, chi sorride, chi si dà la gomitata, ti fanno una radiografia. Cose che danno fastidio. Loro non conoscono me, Vittoria, ma un luogo comune».

«In Italia c’è una concezione della donna pessima. Figuriamoci per gli omosessuali o per i transessuali. C’è ignoranza in questa materia», attacca. Tutto nasce da «un miscuglio di pregiudizi che nel tempo hanno portato a questa situazione». Per la studentessa «bisogna cambiare l’immagine secondo cui transessuale è uguale a prostituta. Anche su Google, se cerco trans, trovo annunci per escort, notizie legate allo spaccio», snocciola infastidita. «Io sto bene, non ho mai fatto nulla di questo, studio, faccio teatro – racconta con fervore – E mi dà fastidio se qualcuno mi addita come prostituta. Anch’io potrei dire: “Tutti i maschi etero sono stronzi”. Ma sarei stupida». E prosegue: «Ci sono donne che fanno le cubiste e quelle che lavorano alle poste. Trans studentesse e trans prostitute. Non ha senso generalizzare».

Per permettere ai cittadini transgender di tutelare i propri diritti, è stata lanciata dalla livornese Michela Angelini una petizione online che in poco tempo ha raccolto oltre cinquemila firme. Sono stati vari i tentativi di modificare la legislazione in materia – nel 2003, 2006 e 2008 – ma finora la politica si è mostrata sorda alle richieste avanzate. «Chiediamo una modifica della legge che ci permetta di presentarci nella società come donne anche senza intervento – dice Vittoria – Vogliamo stare bene con la nostra identità di genere, ossia il percepirsi maschio o femmina». Gli interventi di falloplastica e vaginoplastica sono molto complessi. Nonostante le moderne tecniche chirurgiche abbiano alzato i livelli di sicurezza, «c’è chi non vuole operarsi. È un intervento rischioso, che può avere anche conseguenze per la salute». E comunque, possono passare anche cinque-sei anni affinché la burocrazia completi il processo di cambiamento da uomo a donna e viceversa.

Secondo alcuni studi, racconta la giovane, «per i transessuali da maschio a femmina una parte del cervello è simile a quello di una donna biologica. Molte cose non si possono ancora spiegare, ma è giusto capire, comprendere». Vittoria sottolinea come «il genere è un fatto culturale, viene costruito dalla società». Un’urgenza di inserire qualsiasi essere umano all’interno di una griglia precostituita che va in tilt ogni volta che viene richiesta la carta d’identità. «Ma anche per strada, quando entro in un bar, ci sono sguardi strani. Hanno questa necessità di categorizzare. Sì, c’è l’odio verso l’omosessuale e il transessuale, ma secondo me odiano l’ambiguità, l’androginia. Si sentono minacciati, non riescono a etichettarti. Per fortuna non viene da tutti, ma quando succede si capisce anche a pelle».

Eppure qualcosa sembra cambiare. «Ci stiamo muovendo per far registrare il libretto universitario al maschile o al femminile – anticipa – Ci sono molte città in Italia, anche a Palermo, in cui sono attive iniziative simili per gli studenti transgender. E lo vogliamo fare qui, a Catania». L’obiettivo principale, nel frattempo, è portare la questione ai vertici istituzionali. «Non vogliamo togliere i ruoli tradizionali, vogliamo aggiungere», precisa. Dalla politica «non abbiamo alcun tipo di appoggio o di riconoscimento». Eppure, molto spesso, sono i gesti più piccoli e concreti quelli che hanno maggiori riscontri. «Vedendo me che studio, i miei amici hanno cambiato idea sui transgender. È un bene mostrarsi, fa cambiare la mentalità». E conclude: «Si fa più fatica a nascondersi che a mostrarsi».

Carmen Valisano

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